QUADERNO 14

L’INTESA

Archimede Seguso nella sua fornace di Murano con il nipote Antonio.

 

PRESENTAZIONE

Il sei settembre 1999, alle sei del mattino, serenamente, in punta di piedi, mio Padre mi ha lasciato: ho passato in sua compagnia le ultime venti ore della sua vita. Ho lavorato al suo fianco dal 28 luglio 1958 ed egli è stato il dove puntava l’ago della mia bussola. Secondo il suo pensiero, all’inizio della mia collaborazione sbagliavo sempre. All’improvviso un giorno, senza apparente motivo, ha approvato e condiviso il mio operare. Mi aveva educato ed insegnato talmente bene che ero (come sono) approdato sulla sua stessa lunghezza d’onda. Finita la mia stagione di allievo, e cominciata quella entusiasmante della vera vita, sempre operosa, tra le molte difficoltà e le molte tranquillità, riempita da suoi esempi soprattutto pratici. Diceva spesso: “Xe i fati che conta!” Di mio Padre ricordo gli occhi limpidi e chiari, l’accattivante sorriso velato, il sudore grondante, il gesto sicuro, il bacio schioccante.

Gino Seguso

 

MA LA SUA ARTE
CONTINUA A VIVERE

Archimede Seguso, erede e innovatore di una grande tradizione. Il vetro, la materia che più sfida il tempo. Il segreto di una bellezza fatta di luce. “Una enciclopedia vivente del sapere vitreo”.

In queste e nelle pagine seguenti il maestro Archimede Seguso al lavoro nella sua fornace di Murano.

Per Byron la vita di ogni uomo e come un granello di sabbia nel deserto. “Ogni tanto spunta dalla sabbia un cespuglio, una palma. E’ allora che l’uomo lascia memoria di sè”. Ma quanti, oggi come ieri, lasciano memoria di sè? L’artista – l’artista vero – ha almeno questa consolazione: che dopo la sua morte resta di lui qualcosa: la sua opera. Di un musicista resterà la melodia; di un pittore magari un solo quadro; di un poeta almeno qualche endecasillabo. Di Archimede Seguso restano i vetri: tanti bellissimi vetri, che formerebbero un’oasi nel deserto. Quale destino per un vetro accarezzato dolcemente dalla mano di chi lo ammira e lo ama? II vetro è la materia che più sfida il tempo: ha in sè quasi, nella sua trasparenza e nella sua purezza, il desiderio di eternità.

Un paio d’anni fa a Milano al Museo Archeologico, attualmente a Palazzo Ducale a Genova: e successo davvero che i vetri di Archimede si confrontassero con i vetri siriani o romani del I o II secolo d.C. II pubblico sbalordiva: quell’anelito di essenzialità, quella ricerca di bellezza assoluta, quella sensazione di purezza erano gli stessi, a duemila anni o quasi di distanza. Chi sa soffiare o forgiare il vetro, come ha saputo fare con maestria unica il grande Archimede nelle fornaci di Murano, non teme il passaggio dell’Ala Nera. E’ una fortuna la sua; una benedizione di Dio. Dal fuoco vulcanico egli ha saputo estrarre qualcosa che, intatto, puo sfidare i secoli. La sua arte continuerà a vivere. E’ una consolazione per tutti noi: è forse una consolazione anche per lui che ci immaginiamo lassù, tra le nuvole, sorridere soavemente come ha sempre sorriso in vita.

Non solo. Ma all’aforisma del “tempo grande scultore” (Marguerite Yourcenar), cioè all’alleanza feconda del tempo con l’arte, si aggiunge un evento che capita a pochi artisti. Archimede era (ma come dire? è ancora) il rampollo di una lunga dinastia di creatori di vetro. Discendeva direttamente dai Seguso attestatisi a Murano fin dal Trecento per donare alla Serenissima Repubblica l’equivalente nel vetro dell’aria e della luce della laguna. Ha scritto (e ne riporteremo più avanti ampiamente la parola) uno storico francese come Joseph Philippe, che “al lavoro del vetro Archimede aveva armonizzato tutta la sua vita”: erede di una grande tradizione, meritava veramente di essere considerato “una enciclopedia vivente, la somma di tutto il sapere vitreo veneziano”. Credo fosse bello, per lui, sentirsi inserito in un alveo plurisecolare, come i suoi predecessori che avevano dato con il vetro una delle glorie a Venezia. Non era poi Murano, proprio nel Quattrocento, la terra di una dinastia di pittori come i Vivarini? E l’arte del vetro non è sempre stata, in un certo senso, la continuatrice dei mosaici marciani e, insieme, l’effusione del colore-luce dei grandi pittori, da Bellini a Giorgione a Tiziano, fino a Tiepolo e oltre? L’arte di un grande maestro vetraio come Archimede – unico, in verità, ad essere stato progettista ed anche esecutore delle sue opere, senza intercessioni di designers o bozzettisti – è equiparabile a quella di altre arti “nobili” come la pittura o la scultura. Oggi lo si riconosce ampiamente, una volta caduti certi steccati ideologici. Del resto fin da ragazzo Archimede s’è cimentato con la vera e propria scultura in vetro, anche a massello e non solo a soffio, dandoci opere che (lo si è scritto) vengono riconosciute come il parallelo dei marmi o dei bronzi di un Arturo Martini, di un Messina, addirittura di un Fontana. Lui non è più tra noi: ma i suoi vetri – cioè le sue creature – sono nei musei e nelle collezioni di tutto il mondo, specie in America e in Giappone. I vetri a merletto o a filigrana, poi, sono considerati  I’apice di una finezza segnica strabiliante; come del resto i sommersi o gli intrichi svelano il cangiantismo di un colore che si scioglie nella purezza aerea del vetro.

Archimede di tutto ciò era consapevole: da tempo, quasi novantenne, pensava a tramandare la sua sapienza a qualcuno che gli fosse vicino nella mano e nel cuore. Ecco quindi l’altra sua consolazione, che gli ha fatto chiudere gli occhi serenamente. Gli eredi li ha trovati nel figlio Gino e nel nipote Antonio. Com’era bello vedere in anni recenti il grande vegliardo guidare il braccio al nipote nel calore soffocante della fornace, per trasmettergli i segreti del suo personalissimo “mestiere”! La vita continua. Non c’è cesura; non c’è iato. Archimede Seguso significa per noi un arco temporale di fulgore del vetro, dagli anni Trenta fino a ieri; ma significa anche qualcosa che prosegue: il segno, la garanzia di una fusione (questa si davvero inimitabile) tra la splendida tradizione del vetro muranese e l’inventiva di un uomo che nella storia dell’arte ha lasciato la sua impronta. Dal granello di sabbia è spuntato non un cespuglio, ma un’intera oasi di verde.

 

C’ERA UNA VOLTA
UN BAMBINO…

Archimede racconta i suoi giuochi infantili durante la prima Guerra mondiale. Un calendario per il Duemila, un ricordo commosso.

C’era una volta un bambino…. Archimede Seguso era bambino in uno dei momenti tragici della nostra storia: la prima Guerra mondiale. Soprattutto per i veneti, ed i veneziani in particolare che l’avevano vicina, la guerra era una tragedia che si compiva a due passi. Ma come può un bambino smettere di giocare? Ecco che il Centro Italiano Femminile di Venezia chiese, nel maggio scorso, ad Archimede Seguso di raccontare i suoi giuochi da bambino. Lui prese la penna e scrisse un delizioso ricordo che venne pubblicato in un calendario intitolato: “II giuoco…c’era una volta un bambino”. Il motivo di centro è quello del trenino. Cosa può significare per un bambino il passaggio di un treno, soprattutto di un treno fumoso e rumoroso com’erano quelli di una volta? Alle memorie, così vive, di Archimede s’è unito, nel calendario del 2000, il disegnino a pastelli colorati di un trenino, fatto da un bambino d’oggi, Edoardo Maria Nardi, della seconda classe elementare “Marco Polo” di Portogruaro. Ecco quindi l’abbinamento un pò infantile e un pò nostalgico. II bimbo e il vegliardo si prendono per mano: e sgranano gli occhi davanti ad un trenino incantato.

Particolare di una pagina del Calendario 2000 realizzato dal Centro Italiano Femminile di Venezia, con il testo di Archimede Seguso “C’era una volta un bambino…”.

II Treno

Con la grande guerra siamo stati sfollati ad Antignano, vicino Livorno.

Avevo sette, otto anni e mio padre non c’era, perchè faceva il soldato (non al fronte, per fortuna) a Milano. Un vagone intero era riservato alle nostre famiglie di Murano; viaggiavamo con un’infinità di bagagli, oltre ai preziosi vetri che portavamo in regalo.

Mi sembra di ricordare fosse la prima volta che vedevo il treno e vi salivo, ma la novità è stata sopraffatta dalla grande stanchezza del viaggio, durato un’eternità.

Abitavamo una grande villa, anche bella; ma eravamo in troppi e lo spazio a disposizione in casa, ridotto. Con mia madre Maddalena ed i miei fratelli Ernesto, Bruno e Gino c’erano mia nonna Girolama, mio nonno Francesco e mio cugino Guido, che è vissuto sempre a casa nostra con suo padre Vittorio, le zie Alba e Cecilia, ecc. ecc.

Io, bambino della piccola isola di Murano, scoprivo tutto: la grande strada, poco distante dal giardino della villa Cume, dove passavano i soldati a piedi, con i carri e gli animali, i mezzi militari e pochissime auto; la strada ferrata con la stazioncina dove sostavano le fumose e rare tradotte; i disagi del trasferimento.

Nella nostra squadra di bambini, che correva come uno stormo d’uccelli, da una parte all’altra del parco, c’era anche Giovanni Ferro (più giovane d’un anno di me e frignone) e qualche bambino del luogo. Giocavamo con le biglie di terracotta, in una buca, nel bel mezzo del largo stradone. Vinceva chi vi entrava e colpiva più palline. Oppure si dava da mangiare agli uccellini per vederli da vicino ed era emozionante farsi picchiare la mano con il becco per qualche briciola. Vincitore era colui che dava da mangiare a più uccellini. Ad un tratto il fischio del treno ci richiamava tutti sui binari: di corsa, si inseguiva il lento ultimo vagone, che superavamo poco prima della stazione. Ad uno ad uno i finestrini si aprivano e con i viaggiatori cercavamo di scambiare le nostre biglie con un panino, o dolci di melassa, o qualche centesimo.

Poi mio nonno Francesco sistemava i viali della villa e noi, con il suo carro delle foglie secche, dopo averle raccolte tutte, giocavamo a traghettarci da un posto all’altro. Perdeva chi, spinto, metteva un piede in fallo.

Avevamo tutti le ginocchia insanguinate e le guance rosse, ma gli occhi, il cuore ed i polmoni pieni di gioia, di emozione, di felicità.

Archimede Seguso
Venezia, 3 maggio 1999

Foto degli anni ’20. Nell’ultima fila, in alto al centro, sulla destra del bambino con la camicia nera, i fratelli Ernesto e Archimede Seguso.

 

ED ORA NEL CUORE
DI MANHATTAN

Archimede in museo: il suo posto è là. Cento vetri: una lunga retrospettiva. Un’anatra, un bullicante, un sommerso, un merletto: dove tutto diventa scultura. Dal massello al soffiato: forma, segno, colore.

Che sia proprio là, in America, che vengono scoperti con maggior interesse che altrove i tesori dell’arte italiana? Molti sintomi lo fanno pensare. I musei americani sono pieni di opere italiane, sia antiche (oggi sempre di più) moderne. Lo stesso Museo d’arte moderna di New York, il top mondiale, allinea accanto a Boccioni e a De Chirico gli esiti più alti del design italiano, dalla rossa Cisitalia del 1945 agli oggetti d’uso degli anni Cinquanta e Sessanta.

Antonio Seguso e Richard Mishaan il giorno precedente I’inaugurazione della mostra presso la galleria Homera Manhattan.

II posto dei vetri di Archimede Seguso è accanto a questi reperti ormai antichi e pur inequivocabilmente “moderni”. Basta il risultato d’un’asta, ad esempio i quasi dieci milioni di dollari per “Primavera nelle Alpi” di Giovanni Segantini, a risvegliare l’attenzione. E oggi le sculture in vetro (anche un vaso in filigrana e una scultura) sono al vertice dell’attenzione negli Stati Uniti, dove oltretutto si sono aperte numerose fornaci sulla falsariga della raffinata tradizione veneziana.

Già altre volte in questi “Quaderni” ci siamo occupati di “Archimede in museo”. Ormai i vetri del grande maestro vetraio di Murano sono diventati pezzi storici: direttori di musei e collezionisti se li contendono, mostre si aprono anche in contesti ufficiali, specie laddove si vuol dimostrare la continuità storica dei vetri antichi, orientali o romani, con la produzione muranese attuale. Ecco ora a Manhattan, nel cuore di New York, una mostra di Archimede Seguso – la prima vera e propria retrospettiva dopo la sua morte – che allinea un centinaio di pezzi pregiati, dagli anni Trenta agli anni Novanta: più di sessant’anni di testimonianze d’arte all’insegna della purezza e trasparenza del nobilissimo vetro.

Vaso a tronco, coppa bullicante e pesce, 1937. Vaso e coppa in massiccio vetro verde, ricoperti da sei strati di vetro cristallo bullicante con foglia d’oro. Misure: h. cm. 29; h. cm. 11.

Anatre, 1937. Due anatre verdi corrose. Misure: d. cm. 30; d. cm. 20.

Riproduciamo qui, in queste stesse pagine, un articolo scritto da un critico d’arte nuovayorchese, Judith Nasatir, per la prestigiosa rivista “Elle Decor”, edizione americana. In esso sono riportate anche frasi di un colloquio che la Nasatir ha avuto, proprio a Murano, con Archimede Seguso: sono parole in un certo senso profetiche, specie quando il vegliardo maestro consegna la staffetta in fornace al nipote Antonio, auspicando che “sorpassi il nonno”. Intendiamo appunto sottolineare questa toccante testimonianza.

Vasi merletto, 1952. Tre vasi merletto intemamente decorati con un disegno bianco a rete. Misure: h. cm. 20; h. cm. 22; h cm. 29.

Boccia a fasce, 1953. Vaso sferico lattimo e oro decorato intemamente con fasce a spirale color acquamarina. Misure h. cm. 15, diametro cm. 16.

La mostra a Manhattan è, in realtà, una summa dell’attività di Archimede. Vale ricordare (e pubblicare) alcuni dei pezzi esposti proprio perchè indicativi di uno sviluppo storico. Si parte dagli anni Trenta. Ecco due anatre in cristallo verde: esempi di una scultura a massello che allora interessava il giovane Archimede, accanto alla più classica lavorazione a vetro soffiato, cioè a canna. Dello stesso periodo è un vaso “bullicante”, pure di colore verde, che mostra il tipico stile anni Trenta, sintetico e massiccio, ma nel contempo libero nel viluppo fitomorfico.

Quindi ecco, all’inizio degli anni Cinquanta, i famosi “merletti”, in cui la filigrana finissima si snoda a fasci, arabeschi e volute in una sorta di ritmo sinuoso: autentici capolavori di un’interpretazione moderna del Rococò settecentesco.

Via via si aggiungono i “sommersi”, le “losanghe”, i “Pierrot e, più recenti, i “carnevali” e gli “intrichi”, dove splende il colore nelle sue più stupefacenti sfumature. Sono vasi anche di piccole dimensioni: autentici gioielli in vetro opaco o trasparente, massiccio o leggero, a piume o a coralli, avoriati o dorati, a coste o a losanghe, a nastri richiamati o pennellati, a colori sovrapposti, a filigrane stellate, a cipolla oppure nel più puro degli stili optical, e magari spinati, a reti, a canne, a riflessi cangianti …Tutte fantasie uscite dalla mente e dal braccio di Archimede, vetri in gran parte “soffiati” ma taluni a massello, cioè a pasta piena, come le recenti “Rotture”, così simbolicamente espressive, o l'”Arcamede dorata”.

Vaso e coppa fantasia bianconera, 1958. Vaso e coppa con decorazione in vetro nero e bianco opaco. Misure: h. cm. 29; h. cm. 11,5.

Vasi e coppa a cartoccio, 1952. Vasi e coppa di colore avorio con oro. Misure: I. cm. 25; h. cm. 15; h. cm. 26.

Dove finisce l’abilità funambolica del maestro vetraio e dove comincia la creazione pura dell’artista? In America, forse più che in Europa, si apprezza la stretta congiunzione tra tecnica manuale ed estro artistico. Sono due poli che le avanguardie del secolo scorso hanno spesso disgiunto, ma che oggi si rimettono in felice opposizione.

Il successo della mostra, che resterà aperta fino ad aprile, alla galleria nuovayorchese Homer, lo dimostra.

Vaso merletto, 1952. Vaso con piccolo collo
cilindrico decorato con disegni irregolari
a rete. Misure: h. cm. 50.

Vasi sommersi, 1955. Vasi con tre strati di
vetro ambra, verde e cristallo.
Misure: h. cm. 31; h. cm. 30.

Altri esemplari esposti alla mostra newyorkese.

Vaso e piatto “Carnevale”, 1989. Vaso e piatto in vetro blu, rubino e giallo. Misure: cm. h 34; I. cm. 39.

Vasi “Intrico”, 1994. Vasi blu decorati con fili irregolari di lattimo e vetro corallo. Misure: h. cm. 32,5; h. cm. 21.

 

II PRINCIPIO DI ARCHIMEDE

II vetro seducente di Seguso è un affare di famiglia.

Anche se non può più dire “Eureka” ogni volta che inventa un modo diverso di manipolare il vetro fuso in arte, il novantenne Archimede Seguso palpita ancora davanti alla sfida con la fornace. Egli dice:

“Il mio pezzo preferito è quello che realizzerò domani. La bellezza del creare sta nel pensare a una nuova forma, un nuovo modo di lavorare, una nuova tecnica, un nuovo pezzo.”

La prova di questo assioma può essere vista attualmente da Homer, una galleria di mobili per casa che si trova a Manhattan, che gli darà il benvenuto con una mostra di opere sue verso la fine dell’anno. Seguso, che fondò l’omonima vetreria a Murano negli ultimi anni ’40, porta avanti una tradizione familiare che data dal XIV secolo. “Quando avevo 12 anni”, dice, “ero solito pranzare con tutta la mia famiglia, compreso mio nonno Giovanni, che era considerato uno dei migliori nel fare vetri sottili in stile veneziano, e mio padre Antonio, che era uno dei più grandi maestri vetrai di Murano.”

Seguso stesso ha dato vita ad innumerevoli innovazioni in quanto a forma, colore e tecnica. Durante gli anni ’50, straordinariamente fertili, sviluppò linee personalissime, da collezione, quali i vasi merletto e studiò elementi ornamentali che vanno dalle piume, ai punti, alle losanghe bianche e nere, nastri e pennellate. Homer espone anche alcune delle prime opere insieme a quelle più recenti per documentare il continuum creativo. La ricerca, così come la fornace, sono nel cuore del maestro. “Andare nella fornace è eccitante perchè adoro lavorare col vetro e trovare le sue possibilità”, dice Seguso. “Questo è lo stesso sentimento che ha mio nipote Antonio.  Spero che sia capace di sorpassare il nonno.”

Judith Nasatir

 

VETRI COME SCULTURE
NELLA STORIA

Un grande studioso belga ricorda Archimede in un saggio su “Ateneo veneto”. Lo stile Novecento interpretato in modo originale. Giustificata la definizione di “maestro dei maestri”.

Donna che si spoglia, 1934. Bagnante nell’atto di spogliarsi, in vetro corroso. Mis.: h. cm. 30.

Vastissima è la bibliografia su Archimede Seguso. Su di lui hanno scritto non solo specialisti del vetro, ma critici e storici d’arte. Ora si è aggiunto un saggio di Joseph Philippe, presidente fondatore dell’Associazione internazionale per la storia del vetro, già direttore dei Musei di Liegi e professore titolare dell’Università di Montreal.

Nell’ultimo volume degli “Atti e Memorie dell’Ateneo Veneto”, a cura del prestigioso Istituto Culturale di Venezia, J. Philippe pubblica un importante saggio sull’ “Antico principato di Liegi e la vetreria veneziana”, in cui illustra i rapporti susseguitisi nei secoli tra la città belga e Venezia. Come è noto, Liegi ospita dal 1959, nel suo Museo del vetro, mostre sull’arte vetraria antica e moderna, tra cui, recentemente, una splendida rassegna sui vetri antichi veneziani del Cinquecento e Seicento. E’ significative che, in un contesto storico, lo studioso belga riservi nel suo saggio notevole spazio proprio alla figura di Archimede Seguso, di cui ricorda la definizione di “maestro dei maestri”, che gli fu attribuita da Giuseppe Cappa. Tra l’altro Joseph Philippe ricorda come Archimede si sia imposto sin dagli anni Trenta come scultore vero e proprio nel vetro. La sua maniera d’espressione – egli osserva – non fu mai limitata all’una o all’altra delle estetiche della modernità. Ad esempio negli anni Trenta egli interpreto a suo modo con piena originalità lo “stile novecento”: solidità plastica e sintesi scultorea.

Negli anni Cinquanta lo studioso cita l’interesse suscitato alle Biennali dalle opere di Seguso: ad esempio un nudo femminile eseguito in vetro iridescente conglobato nel cristallo; e una grande scultura in vetro “colorato a lastra” (Biennale del 1966) alla maniera di mosaico in una struttura in ferro e cemento.

“Cercatore infaticabile”, Archimede viene definito “maestro completo” della scultura in vetro: “ad un tempo creatore ed esecutore di opere ad altissimo livello tecnico ed estetico”, tale da “onorare con le sue creazioni multiple il mondo universale dell’arte vetraria”.

Due disegni di figure femminili, realizzati da Archimede Seguso negli anni 1932-34.

Riferendosi al titolo di una mostra a Zurigo nel 1972, “Kunst oder Handwerk?” (Arte o artigianato?), Joseph Philippe risponde: “Sono le opere stesse e la classe di chi le ha eseguite a rispondere a questa domanda. Non c’è un’arte maggiore o un’arte minore. Talune opere che possono essere definite nel dominio della decorazione surclassano altre che entrano nel cosidetto dominio delle arti plastiche”. Anzi, lo studioso arriva a dire che “le grandi tappe artistiche nei secoli sono quelle in cui gli esiti nel campo della decorazione non sono confinati allo stadio di artigianato”. E’ questa la base di partenza per Philippe, che ricorda come Archimede Seguso sia al vertice di un’arte vetraria che sta al passo della migliore pittura o scultura del secolo.

Disegno di “donna con cerbiatto”, realizzato da Archimede Seguso nel 1932. Accanto, Donna con cerbiatto, 1932. Figura acidata in vetro trasparente con cerbiatto blu. Mis.: h. cm. 23.

 

ACCANTO AI VETRI DI 2000 ANNI FA

“Magiche trasparenze” a Genova: come Archimede ha contrappuntato i vasi romani. Un occhio che ha traguardato idealmente verso il futuro. La forza di misurarsi col passato.

E’diventato sintomatico l’accostamento dei vetri di Archimede Seguso con i vetri romani dal I al III secolo d.C: c’è qualcosa che unisce, non solo tecnicamente, due millenni, in nome di una ricerca di purezza e di bellezza nella funzionalità dell’utensile. Dopo Milano, e Genova ad esporre, fino al 15 marzo una mostra intitolata “Magiche trasparenze”, in cui i vetri di Archimede fanno da supporto e quasi da contrappunto ai vetri ritrovati in una campagna archeologica nell’antica Albingaunum (l’attuale Albenga).

Brocca, 1954. Brocca in vetro merletto rosa, piede ad anello e ansa a bastoncello in vetro cristallo e oro zecchino. Mis.: h. cm. 17.

Anfora, 1990. Anfora in vetro blu glauco, anse a nastro. Mis. h. cm. 29,5.

Questa mostra – come si legge nel catalogo – pone l’accento sullo straordinario, quasi alchemico e quindi “magico” procedimento di trasformazione che, da una materia opaca e pesante quale è la silice, consente di ottenere un prodotto puro e lucido, quasi incorporeo, come il vetro. L’esperienza del vetraio assomiglia infatti a quella dell’alchimista: nella sua officina, simile ad un laboratorio misterioso, il vetraio elabora ricette segrete, tramandate di padre in figlio, alla continua ricerca di colori e trasparenze inimitabili. Traendo lo spunto dalla scoperta archeologica di Albenga, sono esposti nella mostra numerosi oggetti vitrei, singolari per varietà e rarità, che offrono al visitatore un affascinante viaggio attraverso il vetro romano. Le forme e le iridescenze antiche, arricchite da creazioni ispirate al vetro romano dell’artista e maestro muranese Archimede Seguso, evidenziano ancora – si legge – la vitalità inesauribile dell’arte vetraria e la linea di continuità tra l’antichità e il mondo contemporaneo. Ecco quindi, accanto a fiaschette, cucchiai e boccette per profumi, vasi e lacrimari tipici dell’uso quotidiano nell’antica Roma, uno splendido piatto blu decorato ad intaglio: autentica rarità nella produzione romana. Esso è antico e insieme moderno; e si accompagna splendidamente ad alcune creazioni di Archimede, come una preziosa mano che par fatta proprio per accogliere i piccoli oggetti di duemila anni fa. Archimede in quest’occasione si è cimentato anche in imitazioni di vetri romani, oltre che in fantasie “sul motivo”: testimonianze, oltretutto, della sua d’uttilità, oltre che del suo profondo rispetto per l’arte dell’antichità… Come non pensare che l’arte del Duemila possa prescindere dalla lezione dell’Antico? L’occhio di Archimede s’è spento proprio sul crinale tra i due millenni; ma ha traguardato idealmente oltre, verso un futuro in cui l’arte dell’attualità dovrà per forza misurarsi con quella del passato.

Olla, 1999. Olla con coperchio in vetro iridato con anse a nastro. Mis.: h. cm. 26,5.

Kantharos e bottiglia, 1999. Bicchiere biansato in vetro cristallo iridato, piede ad anello, anse a nastro. Mis. h. cm. 9. Bottiglia in vetro iridato, ansa a nastro. Mis.: 21,4.

 

IL BESTIARIO,
SPAZIO DELLA FANTASIA

Per “Romagna antiquaria” una sfilata retrospettiva di sculture vitree raffiguranti animali: dal babuino del 1931-32 alla recente “Arcamede dorata”. Un’interpretazione junghiana e una testimonianza di Giorgio Guardigli.

Babbuino, 1931-32. Babbuino scolpito a massello in vetro verdino. Mis.: h. cm. 12.

“Arcamede dorata”, Cavalli, 1994. Quattro teste di cavalli lavorate a massello in vetro cristallo e oro. Mis.: I. cm. 60.

Un capitolo a sè costituiscono, nella lunga storia di Archimede Seguso, i suoi ormai famosi animali vitrei. I primi risalgono addirittura agli anni Venti, quando il giovanissimo apprendista maestro intendeva uscire dalla routine della tradizione neosettecentesca per misurarsi con la scultura vera e propria. Una mostra sul “bestiario di Archimede” è stata allestita tra ottobre e novembre scorsi a Forlì, come fiore all’occhiello di “Romagna antiquaria”. Si sono visti e ammirati pezzi di gran pregio, golosamente richiesti dai maggiori collezionisti: ad esempio il babuino del 1931-32, la volpe verde del 1937 (a suo tempo esposta alla Biennale del 1938), il pesce “bullicante” pure del 1937; e via via l’orso bianconero del 1951, il piccione a festoni del 1954, fino all’ormai famosa “Arcamede dorata” del 1995 in vetro cristallo e oro. Sono tutti pezzi ovviamente unici, autentiche sculture eseguite a massello.

Passerotti, 1955. Coppia di passerotti in vetro opalino e oro nei colori verde e rubino sfumati su base bullicante sommersa. Mis.: h. cm. 14.

Pappagallo, 1957. Pappagallo su tronco d’albero a forma di vaso in vetro sommerso, nei colori giallo sfumato verde e rosso sfumato blu. Mis.: h. cm. 36,5.

Come interpretare questo enorme “bestiario” realizzato nel corso di oltre settant’anni da Archimede? L’interpretazione può persino collegarsi all’inconscio junghiano, come ha fatto un critico e collezionista come Giorgio Guardigli. Negli animali l’artista sembra quasi ritrovare la sua infanzia, cioè la fuga fanciullesca della fantasia. L’orso, ad esempio, ricorre frequentemente nelle creazioni di Archimede. Simbolo di saggezza, lealtà e forza, fiero e generoso, reticente e nel contempo disponibile, l’orso sa controllare la propria forza emotiva; ma soprattutto ha questa sua straordinaria capacità di rinnovarsi ciclicamente, dando prova di una inesauribile carica creativa … Come non vedere nell’orso una specie di identikit di Archimede?

Nelle pagine seguenti, la fascinosa interpretazione che del “bestiario” di Archimede Seguso fa Giorgio Guardigli.

Piccione, 1959. Piccione in vetro alabastro sfumato blu. Mis.: h. cm. 37.

Volpe verde, 1937. Volpe acquattata tra l’erba, lavorata a massello in vetro leggermente corroso. Mis.: I. cm. 39. Scultura presentata alla Biennale di Venezia del 1938.

Il bestiario di Archimede Seguso è un mondo in cui l’inesauribile immaginazione del maestro spazia liberamente. Un mondo improbabile eppur del tutto naturale perchè vestito dell’atmosfera delle favole. Nella fiaba spazio e tempo diventano mobili, elastici. Tutto può succedere. Tutto succede. Le è complice il vetro, una materia che coi suoi colori ed i suoi effetti offre mille possibilità espressive. Possibilità concesse però solo ai grandi maestri: quelli cioè che sanno portare quella fragile materia che è il vetro al limite estremo della lavorazione senza fargli violenza. E Archimede, di questa ristrettissima schiera, è stato sicuramente sino a ieri il più bravo.

Anatra, 1933.Anatra in vetro pulegoso bianco. Mis.: I. cm. 33.

Cane, 1968. Bottiglia a forma di cane in vetro alabastro sfumato fume. Mis.: h. cm. 28.

Gli animali di Archimede Seguso sono colti, quasi di nascosto, nelle loro movenze più naturali. Si muovono e quasi parlano con le posture del corpo e con le loro espressioni. E Archimede interloquisce con loro modellando la materia sulle loro “parole”, in un dialogo durato tutta una vita.

Due sono gli elementi che emergono osservando le sue creature. II primo è la plasticità delle forme, il secondo l’autonomia del colore rispetto al soggetto. Plasticità per Archimede non vuol dire solo un ritorno all’ordine, un richiamo al “mestiere” ma anche, e soprattutto, una forte esigenza di armonia interiore. Ed è questa stessa esigenza che ci fa accettare come naturale anche la forza espressiva dei colori poichè nessuna “pennellata” stona e tutti gli elementi si accendono della stessa luce. Anzi il colore, connaturandosi con la forma, sembra proporsi come la sostanza stessa del corpo lasciandoci intuire la presenza di un’energia inestinguibile. Quasi sempre realizzati da un’unica massa vitrea, con profili morbidi ed ininterrotti, gli animali di Archimede Seguso sono inconfondibili per la fluidità delle superfici, l’equilibrio delle proporzioni, la naturalezza delle movenze e soprattutto per le loro particolari espressioni sempre filtrate da una vena di sottile e divertita ironia. Le tecniche utilizzate sono ogni volta un capolavoro di difficoltà e raffinatezza, ma la perfetta esecuzione non è mai un virtuosismo fine a se stesso e passa quasi sempre in secondo ordine, quasi sopraffatta dalla grande forza espressiva di queste creature.

Gatti, 1951. Gatti lavorati a massello in vetro nero a macchie di smalto bianco. Misurano, rispettivamente, I. cm. 19 e l. cm. 32.

Gatti, 1951. Gatti lavorati a massello in vetro nero a macchie di smalto bianco. Misurano, rispettivamente, I. cm. 19 e l. cm. 32.

Gli animali di Archimede fanno pensare ad una innocenza primitiva. E la ricerca dell’innocenza, fuori da quella dimensione sanguinosa e spietata cui sembra ridursi la storia, è sicuramente uno dei principi ispiratori dell’opera di Archimede Seguso. Di questo tema “l’Arcamede dorata” è simbolo e messaggio allo stesso tempo. Osservando le forme fluide e risplendenti di dorata bellezza dei gruppi di animali che la compongono, cresce in noi una sensazione di pienezza e di pace tale da colmare lo spazio devastato dalla crisi. E’ come se, arretrando di fronte al disordine dell’oggi, Archimede ci portasse a visitare la sorgente stessa dei miti.

Orso, 1951. Orso lavorato a massello in vetro nero a macchie di smalto bianche. Mis.: h. cm. 41.

Ma come può questo mondo idilliaco e sereno conciliarsi con il lacerante e doloroso messaggio contenuto nelle “rotture”, che lo stesso Seguso ha concepito quasi nel medesimo periodo? Uomo di lunga e talora sofferta esperienza, Archimede non ha potuto sottrarsi alla dolorosa testimonianza di un mondo sconvolto dalla violenza e dal “disordine”. Ma proprio lui, che le circostanze della vita hanno fatto diventare adulto anzitempo, è rimasto sino in fondo un eterno fanciullo pieno di gioia di vivere e di ottimismo.

Anatra, 1968. Bottiglia a forma di anatra in vetro alabastro nei colori corallo e verde sfumato. Mis.: I. cm. 35.

Pesce, 1968. Bottiglia a forma di pesce in vetro alabastro nei colori corallo e verde sfumato. Mis. I. cm. 33. Entrambi sono stati realizzati per una nota fabbrica di liquori “in collaborazione con il pittore Luciano Forlan”.

Le serene famiglie di animali di cui si è voluto circondare esprimono la profonda armonia spirituale di cui si accinge, giunto al termine del suo ciclo terreno, a tramandare tutta la sua esperienza al nipote Antonio destinato a prendere il suo posto e col quale ha praticamente vissuto in simbiosi gli ultimi anni della sua vita trasmettendogli, oltre ai segreti della sua ineguagliabile tecnica, quella grande umanità e quella fiducia nei valori fondamentali della vita che hanno fatto di lui, grande maestro vetraio, un artista completo.

Giorgio Guardigli

“Arcamede dorata”, Anatre, 1995. Gruppo di tre anatre lavorate a massello in vetro cristallo e oro su base dalle linee sinuose. Mis.: I. cm. 38.

Faraone, 1955. Coppia di faraone in vetro opalino e oro, in colori blu e rubino sfumati su base bullicante sommersa. Mis.: h. cm. 20 e cm. 16.

 

ATTUALITÀ

Qui accanto, Nana Akuoku Sarpong, capo della Commissione Nazionale della Cultura del Ghana, con Archimede Seguso lo scorso febbraio nella sala espositiva di Murano.

Dall’alto in basso: Archimede Seguso tra il nipote Antonio e il fratello Angelo nel brindisi augurale in fornace, per I’ottantanovesimo compleanno del maestro, 17 dicembre 1998. Jean Paul Lusset, direttore del Teatro dei Celestini, con gli assessori Andre Marechal e Denis Trouxe della città di Lione all’inaugurazione della mostra di “Merletti” di Archimede Seguso. Sulla destra, Gino Seguso con la Signora Eva Barre. Gino Seguso ritira dalle mani del senatore Cornelio Bucar a Sibiu, in Romania, la pergamena della nomina di Archimede Seguso a membro dell’Accademia delle Arti Tradizionali.

Antonio Seguso nella vetreria muranese con I’attrice Kelly Lang, la famosa Brooke della soap opera americana “Beautiful”. L’attrice, a Venezia poco prima di Natale 1999, ha voluto visitare la fornace di Archimede Seguso e provare a soffiare un vaso in vetro. Brooke ha acquistato splendidi lampadari per la sua casa in America.

La Camera di Commercio Industria e Artigianato di Venezia conferisce il Premio per il lavoro professionale e il progresso economico ad Archimede Seguso, artista, maestro vetraio e imprenditore muranese, per settant’anni ininterrotti di attività, 1926- 1996.

Il tradizionale scambio degli auguri di Natale si è svolto, lo scorso 1999, nel segno di un presepe rosso, cui faceva da campana un grande lampadario dello stesso colore. II presepe è stato realizzato da Antonio, memore delle magie del nonno Archimede.

Cavallo, 1965. Cavallo su tronco in cristallo iridescente. Mis.: I. cm. 37.

Collezione uova dell’anno: Hurricane. Uovo 1999 realizzato in cristallo con motivi di filigrane cinquecentesche muranesi intrecciate. Ideazione Antonio Seguso.