QUADERNO 10

Teatro La Fenice, particolare dell’interno. E’ la serata inaugurale della stagione 1966-1967. Alla destra del Palco Reale, nel primo ordine, si trova il palco dove sono seduti Archimede ed Emanuela Seguso.

 

PRESENTAZIONE

 

QUEI VALORI

Le motivazioni da cui nasce un’opera d’arte possono essere molteplici, un matrimonio o una guerra, un amore o un dramma, una preghiera o una protesta. E’ successo per Tiziano e per Goya, per Renoir e per Picasso.

Può succedere anche oggi: come è successo ad Archimede Seguso, il maggior maestro vetraio del secolo, giunto al traguardo vitalissimo degli 86 anni.

Un fatto terribile – il rogo della Fenice – che lo ha toccato direttamente: egli infatti ha vissuto da vicino il dramma dell’intera città, dato che la sua casa è posta a una decina di metri dal teatro. Ebbene, quelle ore d’incubo passate la notte del 29 gennaio scorso si sono tramutate in schegge di bellezza: una serie di vasi che Archimede ha voluto intitolare appunto alla Fenice. Impressioni, lembi di fiamme, fumo che s’addensa, barbagli di luce: ma anche un’emozione che si rinnova, che resta sempre viva.

Crediamo che l’arte – l’arte vera – debba essere così. Non fredda progettazione, non mera Utopia intellettualistica, non distillazione di postulati estetici: bensì forza del sentimento. Un tempo, forse, i sentimenti erano più forti, magari perchè più dura era la vita. Gli artisti non avevano di fronte sequenze filmiche, nastri magnetici, ma fatti di forte pregnanza: si capisce come ne fossero colpiti e, di riflesso, tendessero a tradurli nel magistero della loro arte.

Questo può ripetersi anche oggi. La “verità biologica” resta fondamento della creazione artistica.

Quello di Archimede e della Fenice è un esempio; ma può diventare un monito per chi crede ancora nei valori di ieri come valori di oggi.

 

SGUARDO AL PASSATO

 

AL MUSEO DI ARCHIMEDE

Vasi e bottiglia “la Fenice”, 1996 Vaso in vetro trasparente con sezione ovale e bordo nero, decorato nella parte centrale da nastri spiraleggianti in vetro lattimo profilato ametista.  Mis. h. cm. 29,5.

Vaso con sezione ovale in vetro trasparente, bordo rientrante su due lati profilato nero, decorato da due “soli” con raggi posti a spirale in vetro bianco profilato ametista.  Mis. h. cm. 27.

Bottiglia di forma irregolare in vetro trasparente, collo inclinato profilato nero, decorata alla base da nastri spiraleggianti verticali in vetro lattimo profilato ametista. Mis. h. cm. 28.

Vetri d’ogni tipo scandiscono la storia del gusto e l’evoluzione dell’arte e tracciano la nostra cultura in movimento: questo significa essere “dentro il tempo”.

Cosa cerca, in genere, il visitatore in un museo? Si potrebbe rispondere: la bellezza. Ma è un concetto oggi sempre più sfuggente. Cerca forse l’emozione: cioè qualcosa che risponde alla sua sensibilità, se non al suo stato d’animo. Cerca l’originalità dei linguaggi. Cerca la linea di sviluppo storico nella sequenza delle opere. Cerca anche (direi soprattutto) la personality di ogni artista, magari per confrontarsi con essa. E’ quel che avviene all’interno di ogni museo: quindi anche in quello straordinario scrigno d’arte che è il museo di Archimede Seguso a Murano.

Basta entrare attraverso la discreta porticina di fondamenta Serenella; salire le scale lungo la corsia di velluto rosso; trovarsi di fronte le vetrine e le scansie in cui il grande maestro vetraio veneziano ha allineato una selezione della sua produzione che parte addirittura dai primissimi anni Trenta. Lì, di fronte a centinaia di vetri d’ogni tipo, scatta la molla. Quasi febbrilmente il visitatore cerca l’appagamento alla sua sete. L’occhio non sa dove indirizzarsi; la mente passa da un oggetto all’altro; la mano sarebbe tentata di accarezzarne uno, dieci, cento…

Entro anch’io nel museo di Archimede. Scorgo un cartellino, leggo una data: 1932. Mi pare il profumo di un’epoca lontana, quasi mitica. Alcuni bellissimi vetri mi riportano indietro, ad un certo “clima” storico che è fors’anche una dimensione dello spirito. Di quell’anno è un pezzo ormai celebre: la “Donna con Cerbiatto”. Essa risponde perfettamente al passaggio dall’Art Deco ai primi anni Trenta: grazia, eleganza, ma anche il segno d’uno stile. La linea fluisce sinuosamente, allargando il bacino della donna e stringendo vezzosamente la testa. Che ci sia l’eco di Arturo Martini? Piuttosto è evidente il riferimento a tutto un momento artistico. Poco più in là ecco Primo Camera che esibisce la sua forza muscolare di campione del mondo (siamo nel 1934). Sironi? Permeke? Riconosco che Archimede è un’artista, uno scultore: cioè lavora alla pari dei grandi del suo tempo. Ciò mi emoziona.

Salto una ventina d’anni e trovo una coppa a fili bianchi (1949) giocata su linee irregolari concentriche, quasi bizzarramente. E mi compare, quasi in trasparenza, l’altra grande stagione dei astratto-informale. C’è Wols dietro la porta; c’è Tobey. Lo si capisce: Archimede è la, pronto a cogliere i primi succhi della primavera post-bellica. Due anni dopo (1951) la “Dormiente” s’appoggia ad uno scranno formando un blocco compatto di vetro a massello, lavorato con perfetta rispondenza di masse bilanciate. Ma certo: accanto al nascente Informale c’era anche allora la spinta plastica d’un Moore (anche, perchè no, d’un Picasso?). Le due correnti combattono tra loro. E ancora una volta Archimede è a due passi, pronto a tradurre l’evoluzione del gusto in opera d’arte. Ciò significa essere “dentro il tempo”.

Vasi e coppa “La Fenice”,1996 Coppa in vetro trasparente con bordo rovesciato profilato ametista, decorata da nastri a voluta posti a spirale di colore bianco bordato ametista e corallo bordato bianco, altemati. Mis. h. cm. 14.

Vaso con sezione ovale in vetro trasparente, bordo schiacciato su due lati con doppia bordura in verde lattimo, decorato, nella parte centrale, da nastri a voluta in vetro cotallo profilato bianco. Mis. h. cm. 25.

Vaso ovale in vetro trasparente, piccolo collo con doppia bordura in vetro lattimo, decorato, nella parte centrale, da una fascia di nastri a voluta corallo profilato bianco, interrotta da un’ansa. Mis. h. cm. 25.

Potrei continuare sulla falsariga, nella mia visita. Ma ad un vero artista non è sufficiente questo calarsi nella sua epoca. Occorre che traduca le sue “antenne storiche” in forza autonoma di stile. Così, aggirandomi in questo museo di trasparenze ottiche e mentali, che pare senza fine, cerco di cogliere il succo di oltre sessant’anni di attività. Qual’è il “vero” Archimede? Me lo chiedo a mente fredda. E’ lo scultore straordinario dei masselli a figura piena? E’ il sottilissimo intrecciatore di fili dei famosi “merletti”? E’ il colorista sontuoso che incrocia e cangia i toni fino ad “affogarli” nella massa vitrea? E’ il mago di una tecnica strepitosa che da decenni sbalordisce per le sue soluzioni? E’ il grande creatore dei “bullicanti”, o magari dei recentissimi “Verdi Serenella 18”? E’ il fascinoso interprete delle “rotture”, fisiche e psicologiche, della societa d’oggi? E’ il vivacissimo artefice di tanti “animaletti” che paiono scattare ad ogni istante? E’ il rinnovatore, specie nei lampadari, della grande stagione del Rococò veneziano? … Continuo a chiedermelo. E non m’accorgo che ogni aspetto della produzione del maestro non è la faccia di un enorme prisma che tutto riflette.

Tento la risposta: Archimede è come quegli artisti (mi viene subito un nome, mutatis mutandis Matisse) che passano dalla sinuosa linea curva allo scatto secco, dai dolce color tonale al timbro violento, dall’indugio affettuoso alla gestualità più istintuale: lo fanno restando sempre se stessi.

Ammetto: questa genia di artisti è quella che mi piace di più, proprio perchè non obbedisce a sigle precostituite, non persegue cioè una coerenza ad ogni costo, e magari non cade nella maniera.


Anfora “La Fenice”, 1996. Anfora circolarecon collo cilindrico in vetro nero, decorato da coriandoli in vetro rosso opaco. Mis. h. cm. 27.

Di Archimede Seguso mi piace la “naturalità” con cui tenta ogni soluzione: lo vedo quasi, nell’immaginazione, mentre forgia in pochi istanti il muso d’una volpe che è l’emblema dell’astuzia; o piega e ripiega i fasci di linee incredibili di cui avvolge la magica trasparenza di un vaso; oppure inserisce nella massa vitrea sfumature e imperlature di iridescente colore; o magari, tenta di abbinare vetro soffiato e massellato (leggerezza e gravità) nell’audace Cristo morto di mantegnesca positura. Non c’è mai – me ne rendo conto sempre più – quella stanchezza ripetitiva che è pur così diffusa nella massificazione del gusto d’oggi.

Scorgo su una vetrinetta del museo la testina d’un matelot francese, dal brioso cangiantismo: mi pare uscita netta da un film di Jean Gabin. Ecco, più in là, la volpe verde già altre volte ammirata: se ne sta acquattata nell’erba, quasi annusando l’aria. Sono opere di vecchia data, ma paiono, insieme, riflettere la loro epoca ed uscirne. Che sia proprio questa naturalità a rendere il sottofondo dei “valori universali” di cui dev’essere nutrita l’opera d’arte? Si muovono quasi le bollicine all’interno di un vaso “bullicante” del 1937: sono un’invenzione di Archimede che ha fatto storia, ma non sono rimaste ferme alla loro datazione. La felicità dell’esecuzione ha dato a quel vaso (a cento, a mille vasi) un vitalismo che scorre via, saltella oltre le vetrine, mi riempie quasi di euforia, di joie de vivre. E’ bello stare assieme, magari soltanto per un’ora, alle creazioni di un artista. II museo per esse non è una trappola, una gabbia. Esse sono libere di seguire l’estro, la sensibilità, appunto lo stato d’animo, oltre che la cultura, di chi le osserva e, quasi, le accarezza.

La visita al museo di Archimede Seguso potrebbe continuare. Nel silenzio sento vibrare (è un rumore o una musica?) una coppa eseguita con una sottigliezza incredibile. Mi trema nelle mani come se tenessi un canarino. La legge della gravità è sfidata. Mi pesa invece a sollevarla, la vecchia volpe verde rannicchiata nel prato; ma potrebbe d’un colpo spiccare il balzo verso la sua preda. Lo sguardo traballa nel fissare i fili intrecciati d’un sottilissimo merletto. Mi accorgo che la mia sensibilità è al diapason.

Cosa cerco in un museo come questo? Rispondo prima di uscire: cerco l’ebbrezza, l’effimera ebbrezza di qualcosa che è insieme fluido e solido, trasparente e colorato, liquido e aereo, reale ed irreale. Cerco la conciliazione degli opposti, l’utopia dell’unum. Che si nasconda proprio dietro, anzi dentro, i vetri di questo vecchio saggio fanciullo che risponde al nome greco di Archimede?

Teatro La Fenice, Venezia 1966.

Teatro La Fenice, Venezia 1966.

 

ATTUALITÀ CULTURALE

Vaso e brocche “La Fenice”, 1996. Vaso rotondo in vetro blu decorato da nastri a voluta in vetro opaco bianco, collo con doppio profilo in vetro blu. Mis. h. cm. 27,5 Brocche in vetro blu decorato da nastri a voluta in vetro bianco, impugnature in vetro cobalto. Mis. h cm. 29; h. cm. 23.

 

I VASI “LA FENICE”

Con il dramma di Venezia nascono i vasi “La Fenice” che riportano nel vetro impressioni, emozioni, bagliori e iridescenze. Nella fornace un fuoco creativo si è sovrapposto al fuoco distruttivo.

Noi ci siamo salvati, ma abbiamo perso il nostro teatro”. Alla fine di una nottata drammatica, vissuta dalla famiglia Seguso a pochi metri dal terribile rogo della Fenice, è stato questo il commento, amaro, del saggio Archimede. Assieme ai suoi famigliari, il maestro vetraio ha vissuto il 29 gennaio scorso, le ore più cupe della sua vita nella vampata di calore, di fumo e di fiamme che lambiva la sua casa, posta proprio ad una decina di metri dalle mura del teatro veneziano, appena diviso da un canale quasi in secca. Quelle scene, contemplate nell’ansia di ore febbrili, hanno segnato un vuoto per Venezia; ma hanno anche – succede nel campo dell’arte- fornito ad Archimede Seguso l’idea di un contributo suo, tutto suo, al dramma dell’intera città. Sono nati così, nei giorni successivi, alcuni vasi, sempre più numerosi nel giro di settimane e di mesi, ma sempre unici, che hanno riportato nel vetro le impressioni dell’ottantaseienne maestro. Impressioni: cioè opere. Il fuoco è stato -come non poteva non essere- il punto di partenza di questo ciclo intitolato alla Fenice. Archimede è abituato – da sempre- al fuoco della fornace: vi ha passato davanti tutta la vita. Ma diverso è il fuoco che egli ha visto e intravisto in quelle ore dell’incendio: un fuoco che lo coinvolgeva nelle sue fibre, minacciando la sua casa, tutto ciò che gli è caro, gli arredi, gli oggetti del viver quotidiano, le antiche abitudini, i vetri sulla scansia, i libri, i dischi, i ninnoli, i mobili accarezzati tante volte dalle mani trepide, la presenza dei familiari, i pensieri, i sogni… Tutto ciò si impastava -se così si può dire- con la memoria della scena orrenda vista e rivista nella notte dalla finestra. Fuoco che brucia, che non purifica, e, insieme, fuoco che è anche liberazione, persino sollievo per un incubo passato.

Vasi “La Fenice”, 1996. Vaso in vetro nero con collo allungato e bordo cristallo, decorato da un arlecchino di colori opachi bianco, giallo, rosso, blu, celeste e avventurina. Mis. h. cm. 27.

Vaso in vetro nero con sezione ovale e bordo sinuoso, decorato da un arlecchino di colori opachi bianco, giallo, rosso, blu, celeste e avventurina . (Collezione privata) Mis. h. cm. 32.

Vaso ovoidale in vetro nero con collo svasato e profilato, decorato da “coriandoli” in vetro opaco giallo, bianco, rosso e avventurina. (Collezione privata) Mis. h. cm. 28.

Curioso: non è solo il rosso -come si potrebbe pensare- a invadere questi nuovi vasi. Ci sono bagliori di blu, di gialli, di bianchi. Venezia si scioglie nelle iridescenze, nei cangiantismi: come appunto mosaici marciani. Il vetro, nella sua trasparenza, assorbe e rimanda: a strati, a fasce, a nastri, a spirali, a ritmi di pezzature, a rimandi continui, a sovrapposizioni, a incastri. Le lingue di fuoco qua e là si alzano, volano via con prepotenza. Par quasi che le luci si sovrappongano: sono proprio i riflessi dell’incendio sulle scarse acque del canale. Archimede guardava ora in alto e ora in basso; e in basso vedeva proprio nelle liquide increspature rifrangersi il crepitio delle fiamme. Non è un caso che molti di questi vasi siano frammentati in tasselli e lampi di luce che si ripetono, volgendosi a cadenze dettate dall’aria, dal vento, dallo stesso capriccio del fuoco. Coriandoli gettati verso l’alto? Lingue che si rincorrono nello spazio?

Vasi “La Fenice”, 1996. Vaso in vetro nero a sezione circolare con base e due strozzature degradanti, decorato da nastri a voluta in vetro opaco celeste e bianco. Mis. h cm. 30.

Vaso cilindrico in vetro nero con base e strozzatura centrale, decorato da nastri a voluta in vetro opaco celeste e bianco. Mis. h. cm. 33,5.

Si prende in mano un vaso, o si muove nella luce, si entra con lo sguardo al suo interno, ci si lascia prendere dalla vertigine di un movimento, ci si avvicina o ci si allontana, e magari lo sguardo vacilla fino alle più morbide sfocature. Si finisce per ammettere: c’è qualcosa di quel fuoco feniceo che si sviluppa attorno e dentro il vetro, un’impressione che si rinnova, un brivido (ma è soltanto suggestione?) che ci prende. Archimede era la: affacciato al balcone, testardo, avido di cogliere, sensitivamente e intellettualmente, il vortice di un dramma che si consumava a pochi metri, oltre il canale che diventava sempre più rossastro.

Noi, guardando questi suoi vetri, gli siamo vicini: lo prendiamo quasi per braccio, lo accompagnamo nel suo viaggio fantastico.

Non è difficile inquadrare questi vasi “La Fenice” nel mare magnum di settant’anni di produzione vetraria di un maestro come Archimede Seguso. Una chiave di lettura c’è: è quella dell’aspetto ritmico-dinamico che è sempre stata una delle componenti del suo linguaggio. La forma, per Archimede, non è mai stata qualcosa di statico: non s’è mai asservita a freddi geometrismi e a forzature moderniste, cioè a parametri meramente intellettuali. Guardiamo fin dagli anni Trenta agli animali a massello: vere e proprie sculture immerse in una vitale “naturalità”. Guardiamo anche ai merletti e alle filigrane interpretati con un gestualismo ritmico che sbalordì fin dagli anni Cinquanta i cultori dell’Informale segnico nella pittura. Grazia e armonia sono sempre state unite ad un senso organicistico della forma, anche laddove le sovrapposizioni e iterazioni dei segni finissimi parevano segnare il limite di un pur raffinatissimo edonismo.

Come dire: l’emozione ha sempre prevalso. Ha prevalso anche sul magistero di una tecnica formidabile, di cui Archimede s’è servito senza farsi (questo è il punto) servo egli stesso di uno “stile congelato”. Certi vasi spinati o a rete diventati ormai storici, certe coppe a filigrana stellata, certe bottiglie a fasce cromatiche sovrapposte, certe stupende “immersioni” di color fantasmagorico, certe fascinose alternanze di opaco e lucido, e magari quei vasi con piume su piume, quegli opalini morbidissimi, quei frastagliati capricciosi merletti, oppure le gocce allungate, i punti ametista, i festoni, le sfumature dorate, i cerchi policromi, fino ai cangiantismi dei recenti “verdi Serenella”: tutto questo, e ben altro ancora, Archimede lo ha fatto vivere con la sua felicità naturale, con il suo estro armonico. Così anche per i vasi “La Fenice”: con in più la memoria trasparente di qualcosa di terribile, diventata ormai irrimediabile imprint, marchio indelebile impresso da una notte di incubo.

Vasi “La Fenice”, 1996. Vaso in vetro nero con base e collo a bacile profilato, decorato con nastri a voluta in vetro opaco bianco e rosso. Mis. h. cm. 30,5. Vaso sferico in vetro nero con base e bordo, decorato con nastri a voluta in vetro opaco bianco e rosso. Mis. h. cm. 23,5.

Vasi “La Fenice”, 1996. Vaso con bordo svasato profilato cristallo, decorato con due coppie di nastri a voluta in vetro blu/avventurina e nero/giallo opaco. Mis. h. cm. 29. Vaso rotondo con collo cilindrico e bordo in vetro nero, decorato da due coppie di nastri a voluta in vetro nero/avventurina e nero/giallo opaco. Mis. h. cm. 26.

Ma si sa: nell’arte -in quella vera- anche gli incubi assumono il connotato della bellezza: una bellezza che è anche vita che si rinnova, natura che rinverdisce, giovinezza perenne dello spirito. Certo: Archimede è ormai in un’età che si potrebbe definire veneranda. Tiziano ottuagenario scuoiava il povero Marsia con una pittura densa e spiritata, mossa dalle colpeggiature delle dita nervose: e ne usciva il capolavoro di un’arte nuova. Nella fornace il fuoco si è sovrapposto al fuoco: è diventato ancora più “vero”, sublimato da quel sentimento del tempo universale che depura la tragedia e vi fa nascere, secondo quanto diceva Aristotele, una vita perenne.

Vaso “La Fenice”, 1996. Vaso con fasce in vetro blu chiaro e nastri a voluta in vetro blu scuro e avventurina, base e bordo in vetro cobalto. Mis. h. cm. 30.

 

PROPOSTE D’OGGI

 

ITINERARIO ESPOSITIVO

Vetri in viaggio: da Venezia, attraverso Montreux, Barcellona, Tokyo, le creazioni di Archimede Seguso tornano a Venezia, a giugno in Palazzo Ducale con il Bestiario e, a settembre, per “Aperto vetro”.

vetri viaggiano. Fragili, trasparenti, quasi bagliori di luce, attimi di incantamento: ma anche oggetti. Viaggiano per il mondo. Archimede Seguso gli fa seguire un itinerario colto, che parte da Venezia e si dirama un po’ in tutta Europa, varcando talvolta l’Oceano.

Vasi “La Fenice”, 1996. Vaso in vetro nero con superficie mossa ed irregolare, decorato da nastri a voluta in vetro opaco bianco sfumato. Mis. h. cm. 29.

Vaso ovale con base e collo svasato in vetro nero, decorato da fili verticali sinuosi in vetro celeste opaco. Mis. h. cm. 31,5.

L’ideale partenza di queste settimane è, naturalmente, Venezia. La città, pur ferita dai dramma della Fenice, riprende ciclicamente la sua vita. II letargo invernale è passato. Nella elegante galleria, rinnovata con gusto, delle Frezzerie, cuore del sestiere di San Marco, appaiono i vasi “Verdi Serenella 18”, d’un cangiante, quasi profumato di verzura rugiadosa. Spiccano assieme ad una scelta del nuovissimo ciclo dedicato -come diciamo a parte- al rogo della Fenice. Di là del Canal Grande, dopo il ponte dell’Accademia, un’altra galleria, la Micheluzzi, posta ai piedi del ponte delle Maravegie (meraviglie), espone cento pezzi sceltissimi, dagli anni Trenta ad oggi: un trionfo di filigrane e di merletti, di colori esterni o “sommersi”, di forme classiche ed estrose, di soffiati e masselli.

All’estero almeno due appuntamenti si impongono: Montreux, in Svizzera, ospita alla galleria Chevalley una mostra intitolata significativamente “Musique, couleurs, formes”. Anche qui troviamo un centinaio di vetri vecchi e recenti, che danno in sintesi il percorso fervidissimo, sempre inventivo, del maestro vetraio veneziano.

Vasi “La Fenice”, 1996. Vaso con sezione circolare di forma sinuosa con bordo e base in vetro nero, decorato da nastri a voluta in vetro opaco giallo e rosso sfumati. Mis. h. cm. 34.

Vaso con sezione ovale e collo svasato, in vetro nero decorato da lingue di colore opaco giallo e rosso. Mis. h. cm. 32.

Vaso leggermente svasato con bordo sporgente, in vetro nero decorato da “coriandoli” in vetro opaco, giallo e rosso sfumati. Mis. h. cm. 26,5.

A Barcellona ancora i “Verdi Serenella 18” e le “rotture” interessano il colto pubblico di collezionisti spagnoli: ed è la galleria di Biosca e Botey ad esporli. Più lontano, ben più lontano, ecco che in Giappone troviamo nei Grandi Magazzini Isetan a Tokyo un’altra scelta dei vetri di Archimede, considerati dai collezionisti locali pezzi di altissimo pregio.

Ma come non ritornare idealmente a Venezia? II 12 settembre Archimede farà la sua rentree a Palazzo Ducale per “Aperto vetro”. Si annuncia una grossa sorpresa. Il “grande vecchio” non cessa di meravigliare.

Vaso “La Fenice”, 1996. Vaso in vetro nero con sezione circolare con collo leggermente svasato, decorato da due nastri a voluta in colore doppio opaco: bianco/acquamarina e giallo/verde. Mis. h. cm. 24,5.

Vasi “La Fenice”, 1996. Vasoin vetro nero con sezione ovale, decorato da “coriandoli” in vetro opaco rosso e bianco. (Collezione Gianni Versace) Mis. h. cm. 32.5.

Vaso a campana in vetro nero, decorato da “coriandoli” posti a scacchiera in vetro opaco rosso e bianco. Mis. h. cm. 29.5.