QUADERNO 2

La famiglia Seguso in una foto del 1926. In piedi, alle spalle del padre Antonio, il secondo genito Archimede.
Diciassettenne, Archimede lavorava in fornace già da cinque anni e stava per diventare “maestro”.

 

PRESENTAZIONE

 

“CULTURA IN MOVIMENTO”

I “Quaderni di Archimede Seguso” sono giunti al secondo numero.  Vale fin d’ora esprimere soddisfazione per il favore con cui al loro apparire, tre mesi fa, sono stati accolti dal pubblico.  Dicevamo, in occasione dell’esordio, che la “Archimede Seguso”, portatrice di una lunga tradizione, si propone da tempo l’abbinamento di un’alta qualità esecutiva con un’impronta di creazione autonoma, legata al nome prestigioso del suo fondatore, ancora felicemente operante. Quindi i fascicoli dei quaderni intendono essere lo specchio di una “cultura in movimento”: non mero strumento di promozione commerciale.  La conferma di questo assunto si è avuta anche con la mostra a Treviso del recentissimo ciclo di Archimede dedicato emblematicamente alle “rotture”, di cui abbiamo parlato nello scorso numero. E’ stato un autentico successo, tanto che la mostra, dopo essere passata a Venezia, proseguirà il suo itinerario prima a Firenze, poi a Roma, a Milano e quindi in altre varie tappe all’estero. Questo numero, come il precedente, intende collegare la storicità dei vetri di Archimede con una situazione culturale che vuole essere strettamente legata all’attualità. Archimede Seguso è stato più volte definito un “classico moderno”. Ecco quindi, nelle pagine seguenti, un sintetico panorama di alcune sue presenze nei musei  americani, giapponesi ed europei. Quindi un discorso più storico, che mette a fuoco la partecipazione del maestro alla Biennale di Venezia del 1972, anno cruciale di transizione; infine uno squarcio che riteniamo interessante sugli arredi in vetro di una casa d’abitazione a Venezia. Ieri e oggi: la continuità di una grande tradizione ed occhi aperti al mondo che cambia.

 

ATTUALITÀ CULTURALE

 

VETRI IN MUSEO

Classiche ed universali, le vitree irrealità di Archimede Seguso sono approdate nei templi delle Muse: dal Metropolitan al Corning di New York, da Otaru in Giappone a Vienna ed a Madrid nei musei di arte decorativa.

Che cos’è un museo?  Retoricamente si potrebbe rispondere: è il luogo dove si raccolgono e si conservano le memorie storiche. Ernest Gombrich ha trovato forse la definizione più giusta: “Museo è l’arte che viaggia nel tempo”. In realtà un oggetto che entra nel museo ha la consacrazione di uno spessore non effimero: quasi la patente per sfidare, appunto, ogni contingenza. Le opere di Archimede Seguso sono entrate nei musei da tempo. I suoi vetri hanno una bellezza “classica”, laddove questo termine indica qualcosa che risponde ad una misura aurea, ad una regola  universale. Cadute ormai oggi certe barriere ideologiche le arti che fino a ieri erano decorative sono a pieno diritto entrate nei sacri recinti. Quindi è naturale che in un grande museo, anzi nel più grande di tutti, il Metropolitan di New York, i vetri di Archimede Seguso siano entrati con la dignità dell’arte. In quanti musei del mondo si trovano le opere di questo maestro? Impossible dirlo, anche perchè le acquisizioni avvengono per lo più attraverso aste o transazioni commerciali private.

I vetri di Archimede sono entrati da tempo nel modernariato: cioè sono sottoposti a valutazioni e quotazioni in riferimento all’epoca, alla foggia, alla rarità, alla qualità. Del resto, ogni cosa al mondo d’oggi ha il suo prezzo, Carlo L. Ragghianti è arrivato, negli anni ’60, a quantificare persino il prezzo di tutti gli oggeti d’arte custoditi a  Firenze, compresi i Giotto e i Botticelli. Negli uffici muranesi di Archimede Seguso arrivano continuamente lettere da parte di gloriose istituzioni con richieste di prestiti. L’ultimo caso (ultimo in ordine di tempo) è quello del Museo Solomon R. Guggenheim di New York che, in data 2 maggio scorso, richiede il prestito di alcuni vetri degli anni Cinquanta per una mostra prestigiosa che avrà luogo ad ottobre, dal titolo “The Italian Metamorphosis, 1943-1968”.

Vaso a festoni, 1954. Vaso a goccia in vetro trasparente decorato intemamente con festoni di segmenti diagonali a fili bianchi e ametista. mis.: h. 28 cm.,diametro 17 cm. Dusseldorf Kunstmuseum.
Vaso a zig-zag, 1951. Vaso sferico, decorato intemamente con fasce spiraleggianti a zig-zag, corallo e bianco opaco con oro. Mis.: h. 17 cm. New York, Metropolitan Museum.
Tavolino, 1950, piano e gambe in vetro dal rosso al verde, marezzato con foglie d’oro. New York, Coming Museum of Glass.

Sono soprattutto i pezzi degli anni Cinquanta (oggi contesissimi dal mercato internazionale) ad essere appetiti dai musei. Per restare a New York, anzi per riferirsi proprio al Metropolitan, va ricordato che tra i capolavori ivi custoditi c’è un vaso di Archimede del 1951: una sfera con piccola apertura superiore, decorata internamente con fasce spiraleggianti a zig-zag, su una gamma squisita che alterna il rosso corallo al bianco opaco, con finissime screziature in oro. Il vaso arrivò al Metropolitan durante la grande mostra di Tiffany nel 1989, che comprendeva una autentica celebrazione di Archimede; e fu acquisito proprio in quell’occasione dai trusts del museo. La critica ha  tessuto gli elogi di quest’opera proprio perchè unisce un gusto estroso, quasi di rottura formale (le fasce a zig-zag) con una raffinatezza estrema di forma e colore. E’ stato da molti elogiato proprio perchè esprime quello che viene chiamato “Stile italiano”, nel senso che unisce alla classicità la novità linguistica. I primi anni Cinquanta sono stati anni aurei non solo per Archimede, ma per tutto il design italiano, oggi più che mai apprezzato nel mondo intero.

Vaso e coppa fantasia a nastro, 1951. Vaso e coppa decorati intemamente a fantasie diagonali ametista su trasparenze e bianchi opachi. Vienna, Museo d’Arte Applicata.

Vaso e coppa a fasce ametista e bianco, 1951. Vaso e coppa decorati intemamente da fasce ritorte in vetro ametista e bianco. Vienna, Museo d’Arte Applicata.

Basterà solo citare che l’unica automobile esposta al Museo d’Arte Moderna della stessa New York è una Cisitalia rossa prodotta nell’immediato dopoguerra. Restiamo negli Stati Uniti. Rechiamoci al notissimo Corning Museum of Glass. Qui troviamo esposti alcuni pezzi di Archimede, tra cui un originalissimo tavolino del 1950. Esso è formato da un piano ovoidale di cristallo trasparente, che poggia su gambe che sinuosamente s’incrociano e si sdoppiano, d’un colore che cangia dal rosso al verde, marezzato con foglie d’oro. Questo tavolino fa parte di una ristretta serie che, tra l’altro, è stata esposta nel 1966 a Kyoto nella mostra “Arte di vivere oggi”. Al Corning c’è anche un’anatra dei primi anni Quaranta, d’un morbido colore verde: uno dei pezzi storici che Archimede ha prodotto e che gli ha meritato fin dalla giovinezza (fine anni Venti) l’appelativo di “maestro degli animali”.  In Germania, al Kunstmuseum di Dusseldorf, c’è ad esempio un vetro a festoni del 1954. E’ un vaso a goccia in vetro trasparente, decorato internamente con festoni di segmenti diagonali a fili bianchi e ametista: qualcosa di leggero, che vibra nell’aria con ritmi che nella trasparenza s’incrociano. Per inciso diciamo che:  Vetri simili di quest’epoca hanno spuntato sul mercato libero e a varie aste, quotazioni abbastanza sostenute.

Presepe, 1950. Dodici pezzi in vetro soffiato e colorato con essenze d’oro incorporate. Madrid, Museo Nacional de Artes Decorativas.

Pure degli anni Cinquanta è il Presepe (1950-52), esposto al  Museo Nacional de Artes Decorativas de Madrid, fatto di dodici pezzi, compreso il bue e l’asino.  Si presenta come un’originale composizione di vetri soffiati e colorati, con impalpabili essenze d’oro incorporate. Anche qui ricordiamo un parallelo: un altro Presepe (questro del 1966) esposto in permanenza nella chiesa veneziana di Santo Stefano, proprio vicino ai capolavori di Tintoretto e di Bartolomeo Vivarini.

Nel Museo d’Arte Applicata a Vienna, Archimede Seguso è presente con due oggetti di vetro degli anni Cinquanta: una ciotola con piume bianche, e un vaso a decorazione irregolare di nastri a fili bianchi. Potremmo continuare citando, ad esempio, i vari pezzi di Archimede esposti in Giappone nel Museo dell’arte veneziana ad Otaru. Anche qui, come per il vaso del Metropolitan, l’acquisizione è avvenuta in seguito ad una mostra ad altissimo livello, nel 1990: una autentica personale a carattere antolgico di Archimede, con ben 74 opere a partire dal 1932. La mostra a Otaru è stata seguita, pochi mesi dopo, dall’altra grande esposizione al Palazzo Ducale di Venezia, dove sono state esposte oltre 180 opere del maestro: quasi un secolo di storia del vetro muranese.

Tempio delle Muse? Luogo dell’eternità? Le parole suonano sempre retoriche. Il fatto è che Archimede Seguso ha lasciato qualcosa che ha le ali per sorvolare il mare del tempo. Quei vetri sono là, a riflettere una luce che è quella della vera bellezza: una bellezza, appunto, classica, universale.

 

SGUARDO AL PASSATO

 

VETRI IN MOSTRA

Biennale 1972 e il “rigore” di Archimede Seguso. Nell’anno della restaurazione e della moda optical, il maestro muranese espone vetri spinati e a petali. Sottili filigrane in controluce. In un momento di disorientamento culturale e politico Archimede percorre la strada di un alto rigore formale.

Vaso spinato, 1972. Vaso cilindrico in vetro grigio fumè trasparente decorato intemamente con fili di lattimo a spina di pesce. Base in vetro grigio. Mis.: h. 27 cm., diametro 8 cm.

Gli artisti – dico quelli veri – hanno le antenne. Captano i sintomi del tempo: captano, assimilano, interpretano. Il caso di Archimede Seguso 1972 è indicativo; ed è per questo che vale soffermarvisi, anche perchè si tratta di uno squarcio ormai storico che, in questo secondo numero dei “quaderni”, appare opportuno ricostruire. Ne esce, come vedremo, la figura di un artista che ha “sentito” il tempo in cui viveva e ce ne ha rimandato la sua angolazione, con straordinaria capacità reattiva e, insieme, inventiva.

Basterà fissare un momento, uno solo: quello dell’appuntamento con la Biennale, apertasi a Venezia nel giugno di quell’anno: appunto il 1972. Archimede espone alla Biennale, nella sezione distaccata presso l’Ateneo San Basso, in Piazza San Marco, alcuni vetri a filigrana “spinata” e a “petali”. La sua è una presenza a fianco di altri artisti delle cosiddette arti decorative (perlopiù vetri e ceramiche) secondo una consuetudine che risale ancora agli anni Trenta e che poi, purtroppo, sarebbe stata abolita. Le opere di Archimede colpirono, allora, per le forme di assoluta geometria, screziate da sottili motivi lineari “a cannuccia”, d’un biancore lattiginoso. Erano vetri che oggi possiamo definire optical, paralleli eleganti e finissimi di una maniera che allora andava diffondendosi dall’arte al costume estetico.

Vale focalizzare meglio l’anno in cui Archimede presentava questi vetri. Il Sessantotto pareva ormai lontano; ma aveva lasciato il segno. Dopo i tumulti rivoluzionari (più o meno autentici) che avevano caratterizzato la Biennale del 1968, era arrivato nel 1970 il momento di un difficile passaggio. Gli ultimi Gran Premi erano stati assegnati al francese Nicolas Schoffer e alla inglese Bridget Riley: era il trionfo della Op Art, l’arte optical che, con le sue distorsioni lineari, aveva puntato sulla percezione dei fenomeni ottici puri. Poi, come voleva la moda sessantottesca, (e l’iprocrisia della moda), niente più Premi. La Biennale stava per godere di un nuovo “statuto democratico e antifascista” (quello stesso che oggi viene deplorato come demagogico). Umbro Apollonio aveva “disegnato” la Biennale del 1970 in modo ancora enfaticamente avanguardistico, sulla linea appunto della geometria optical e percettivista. Ma poi era avvenuta, in modo strisciante, la restaurazione.

Vaso a petali, 1972. Vaso a forma di goccia allungata in vetro grigio trasparente decorato intemamente, alla base, con cinque fantasie di petali di filo di lattimo. Mis.: h. 35cm., I. 16 cm.
Vaso a fili continui, 1962. Vaso a forma di goccia con collo sottile e allungato e piede semisferico in vetro trasparente decorato intemamente con fili verticali e continui di lattimo. Mis.: h. 45 cm., I. 13 cm. Murano, Museo del Vetro.

In quel 1972 il consociativismo politico aveva portato al timone delle Arti visive un politico “mediano” come Mario Penelope. Il tema era ambizioso: “Opera e Comportamento”. Voleva indicare le due linee d’azione dell’arte di allora: da una parte il rientro nella fattualità manuale, dall’altro la fuga verso l’utopia concettuale. Fu una Biennale mediocre, di compromesso, ravvivata soltanto da qualche fatto clamoroso: come quello del povero mongoloide appeso in una sala (l’autore dell’happening era Gino De Dominicis) con un cartello al collo: “Seconda soluzione di immortalità:  l’universo è immobile”.

Coppia di vasi a petali, 1972. Vasi in vetro grigio trasparente decorati intemamente alla base con fantasie di petali con fili di lattimo.
Coppa e vaso spinato, 1972. Coppa rotonda e vaso cilindrico in vetro trasparente fumè, decorato intemamente con fili di lattimo a spina di pesce, base in vetro pieno grigio fumè. Mis.: coppa, h. 11 cm., diametro 21 cm.; vaso, h. 31 cm., diametro 14 cm.

Niente di più lontano dall’assolutezza “classica” dei vetri di Archimede Seguso. Forse solo a distanza di tempo (ed è passato quasi un quarto di secolo) si può misurare l’adesione e insieme il distacco di un artista dalla temperie storica. In quel momento di confusione, di disagio, di disorientamento, che caratterizzava non soltanto l’arte ma tutta la cultura italiana (e insieme il generale aspetto politico) Seguso indicava la strada di un alto rigore formale. Era sì dentro il suo tempo: la vicinanza con i fenomeni percettivistici della Op Art era chiara, ma chiaro era parimenti il suo tentativo di distaccarsi dalla contingenza banale della moda, per puntare all’assolutezza della creazione artistica. Non sembri una forzatura: basterà ricordare le fogge optical dell’abbigliamento e in genere del costume estetico di allora. Seguso le interpreta a modo suo, avvicinandosi alle sovrapposizioni virtuali dei fasci di linee di Bridget Riley (un’artista che aveva veramente colpito per il suo rigore percettivista) ma nel contempo richiamandosi ad un’aurea misura che, lo ripetiamo, non poteva che essere classica, al di là delle mode.

Vaso spinato in vetro trasparente con base in vetro grigio pieno, 1972.

Oggi, nel museo che raccoglie le opere di Archimede Seguso a Murano, noi rivediamo quei vetri esposti alla Biennale con grande interesse. Vi riconosciamo l’impronta del tempo ma soprattutto l’impronta sua: della creazione autonoma di Archimede. Già in anni lontani il maestro aveva tentato la carta rischiosa e tecnicamente ardua del “merletto” (intorno al 1950); poi, qualche anno dopo, aveva inventato le cosidette “piume”. Era un modo da aderire alla leggerezza e trasparenza intrinseca del vetro. Nel 1972, quei vetri a filigrana spinata e a petali non erano che la prosecuzione. Possiamo prendere in mano quei vasi e “leggerli” magari in controluce, facendoli ruotare in modo che i fasci di linee si intersechino (…alla maniera optical) e creando così una sorta di immagata filigrana dove il bianco gioca sul bianco, creando effetti di alta maestria e di straordinaria suggestione artistica. E’ un momento di purezza, legato alla perfezione della geometria: un momento che, significativamente, si contrappone al caos di un periodo storico che Archimede Seguso, come tutti i veri artisti, ha vissuto con un nodo alla gola.

PROPOSTE D’OGGI

La sala da pranzo. Sulla tavola sono disposti vari oggetti in vetro di Archimede Seguso. II raffinato lampadario e anch’esso opera del maestro muranese.

VETRI IN CASA

In una quattrocentesca dimora veneziana, tra mobili antichi, fini ceramiche, argenti, tappeti e raffinati arredi, ben figurano i manufatti in vetro di Archimede Seguso.

Una casa del Quattrocento a Venezia: facciata gotica, tipico salone centrale con stanze ai lati. Completamente restaurata, rispettando l’essenza e il sapore delle dimore dell’alta borghesia, Zattere, sul Canale della Giudecca, è stupenda. Noto che l’arredo riflette un gusto tipicamente ottocentesco per le piccole nostalgie di ieri: mobili antichi, tavolinetti, mensole con decine di oggetti sparsi, ma raccolti meticolosamente nei numerosi viaggi, magiche vetrinette, fini ceramiche, argenti, tappeti pregiati.

Intemo del salone dove i vetri di Archimede Seguso si inseriscono armoniosamente con i raffinati arredi antichi. In primo piano serie di vasi opalini rosa, 1955 ca.

Le pareti di un caldo, morbidissimo pastello, le appliques in cristallo di Murano soffuso d’oro zecchino, le travi al soffitto, non troppo alte, fanno intravedere i decori antichi: l’ospite è desideroso di rendere partecipi anche gli altri di quanto vede. Già, …e i vetri di Archimede Seguso? Ci sono. Nel salone, un trittico di due vasi e una coppetta in opaline rosa e oro degli anni ’50 che Archimede sembra abbia soffiato con un sol respiro… E sopra un tavolinetto dell’ottocento, un vaso cartoccio carnevale  della fine degli anni ’80, dove i colori modellano la forma.

Lo studio del “pawn de casa” campione di automobilismo e appassionato cacciatore: si mostrano, sopra I’armadio dei fucili, tre anatre blu cobalto (il prototipo è degli anni ’35-’37).

Costcontroluce sembra un apparizione irreale. Sopra, la stanza dei giochi: lampadario in vetro alabastro con vivissimi colori opachi nei tulipani.

Ed ancora, sopra un bureau, delle “bomboniere” in vetro merletto, tipico di Archimede, due fiorellini bleu cobalto. Ormai è l’imbrunire, entro nella sala da pranzo. E’ un trionfo di cose di vetro. Sulla tavola pronta a ricevere, i bicchieri, i candelieri, il vaso, le piccole decorazioni ed il lampadario che armoniosamente s’intona all’arredo e sovrasta. La regia è della padrona di casa, Cecilia Pasotto Dolcetti, e le chiedo il perchè di questo amore per i vetri d’arte e in particolare per questi di Archimede Seguso. Mi risponde gentilmente, senza incertezze, come se il suo pensiero fosse da tempo fermo: “Amo il vetro perchè sono veneziana, e come tale ne sento la leggerezza e la luminosa armonia. Amo il vetro di Archimede Seguso perchè, pur essendo lieve, mi da l’impressione della materia, cioè di un oggetto consistente: ed a me piace circondarmi di cose che posso toccare, accarezzare, prendere in mano”.

L’intimità della camera da letto par quasi essere protetta dai vetri antichi piombati delle vetrate veneziane. E con il buio, vive anche I’oro dei lumi di Archimede Seguso. In quarta di copertina: Vaso opalino, 1955.

Vaso a campana a coste diritte in vetro opalino sfumato rosa e oro, collo cilindrico liscio con labbro allargato in rubino trasparente con oro, base in cristallo e oro. Mis.: h. 42 cm., 1.21 cm.