QUADERNO 6

Una stretta di mano storica: quella del Presidente Einaudi e di Archimede Seguso.  Siamo nel 1952 alla Biennale di Venezia, nel padiglione del vetro.  Allora il grande maestro vetraio muranese esponeva le sue finissime filigrane, i merletti, le fasce e gli intrecci di un gusto che abbinava una sorprendente modernità di impianto alla più autentica tradizione veneziana.

 

PRESENTAZIONE

 

CENTO ANNI DI VETRI
ALLA BIENNALE

Questo numero dei Quaderni di Archimede è dedicato alla Biennale del centenario. La scadenza è importante nella cultura artistica italiana; e importante è il bilancio che, pur da mostre non ben storicizzate come si sarebbe voluto, si può trarre. Dal nostro punto di vista, che è quello di una bellezza che va al di là degli strumenti e delle forme canoniche dell’arte, appare utilissimo un raffronto tra quelle che venivano un tempo chiamate arti nobili e le cosiddette arti applicate. La sezione dei vetri storici a Ca’ Pesaro, pur nella sua sintesi che potrebbe anche apparire discutibile, ha quanto meno il merito di consentire, nei raffronti e nelle comparazioni, parametri di valore che escono finalmente da graduatorie di comodo. E’ qui che i vetri di Archimede Seguso, a nostro avviso, si impongono.

Archimede Seguso mentre visita la mostra: “Venezia e la Biennale. Percorsi del Gusto”, allestita a Ca’ Pesaro in occasione dei 100 anni deI Biennale.

Il primo saggio di questo Quaderno fornisce i punti salienti di una problematica che merita di essere discussa: quella del rapporto, spesso ambiguo, tra la pittura che domina il secolo e l’oggettistica “decorativa”, come appunto il vetro. II secondo saggio esamina più da vicino la mostra della Biennale ed in particolare le tappe delle partecipazioni di Archimede Seguso, considerato come l’unico “artista completo” nella creazione del vetro, cioè designer e insieme esecutore delle opere; e l’attenzione va soprattutto ai merletti, alle filigrane e a tutta la strutturazione segnica che muove la modernità del maestro muranese nel solco della tradizione veneziana. II terzo saggio si sofferma, sia pur brevemente, sull’altro aspetto di Archimede: quello della forza cangiante del colore nei vetri “sommersi”.

 

IL CENTENARIO DELLA BIENNALE

LE ARTI DECORATIVE:
QUANTI EQUIVOCI

In quel 1895 si volle puntare soltanto sulle “arti nobili”: ostracismo al gusto floreale. I primi cedimenti e la rivoluzione “regionalista” del 1903. I padiglioni nazionali e il ritorno delle arti applicate. 1932: uno spazio a sè, ma anche una ghettizzazione.

Biennale 1950. Nudo, scultura di nudo in vetro iridescente, sommersa nel cristallo.

Quando nacque, nel 1895, la Biennale fu e volle essere soltanto una mostra di “arti nobili”, cioè imperniata su pittura e scultura. In un certo senso fu questa la carta vincente della manifestazione veneziana. In precedenza, nel 1887, era stata allestita, sempre ai Giardini, una Esposizione Nazionale artistica, aperta – come succedeva allora – alle arti cosiddette applicate: ma non aveva ottenuto successo. L’idea del trio Selvatico-Fradeletto-Bordiga puntava ad ottenere il maximum di arte pura, volgendosi sempre più sulla linea simbolista- decadentista: quindi preferibilmente verso le Secessioni di Monaco e Vienna che non verso l’lmpressionismo e Post-Impressionismo francesi.  Di qui l’aspetto letterario che presero le prime Biennali, di cui fu esempio soprattutto il “Supremo convegno” di Giacomo Grosso, che costituì il primo scandalo (quindi la prima pedana di lancio) della Biennale.

Ecco delinearsi, fin dalla prima Esposizione, una pregiudiziale di fondo. Il “Supremo convegno” (un quadro che oggi giudicheremmo grottesco) rappresentava cinque donne ignude che si protendevano voluttuosamente sulla bara di un don giovanni esangue con grandi baffoni. Non a caso, proprio per l’impressione giudicata oscena (ci fu anche un anatema del cardinale Sarto, il futuro Pio X) il quadro ebbe un morboso potere d’attrazione: tanto che, pur prudentemente esposto in una sala disobbligata del percorso, ebbe il maggior premio da una giuria popolare. Ma anche gran parte dei ben 516 dipinti e sculture esposti rispondevano a questa impostazione: intellettualismi sofisticati, sottili erotismi, brividi di esistenziale decadentismo, esibizione di pompierismo artificioso. Nel contempo si disprezzava tutto ciò che potesse ricondursi alle “arti industriali”, giudicate minori, anche se prodotte allora dallo squisito gusto Viennese della Secessione. II Liberty, almeno nelle sue manifestazioni di eleganza decorativa, veniva bandito. Eppure allora esso raggiungeva forse il massimo del suo fascino estetico (si pensa a Horta, Guimard, Mackintosh, van de Velde, Hoffmann). II che dimostra una concezione tradizionalista della Biennale nella divisione tra arti liberali e arti decorative.

Biennale 1952. Vaso merletto. Vaso a forma di goccia appiattita con sezione triangolare in vetro trasparente decorato internamente con merletto bianco spezzato da due denti cristallo.

Vaso “fantasia a nastro”, 1952, h. cm. 28. Vaso con sezione ovale decorato internamente in vetro bianco e ametista a fantasia diagonale.

Già nella terza edizione, 1899, questa pregiudiziale ebbe segni di cedimento. Fecero capolino alcuni bassorilievi (Vincenzo Cadorin, Del Bo, Charlier e altri) e soprattutto nella sala scozzese le opere dei quattro “ragazzi di Glasgow”, tra cui spiccava Mackintosh: cuscini, libri, vetri, addirittura manifesti. Ma la virata storica avvenne nel 1903: l’Esposizione restava legata a pittura e scultura per quanto riguardava il panorama internazionale, ma si apriva ad un inedito concetto di “regionalità” per la parte italiana. Fradeletto, il segretario generale, chiariva la sua opposizione alle “puerili scapestrerie del cosiddetto Stile floreale o anche impropriamente Stile Liberty”, con tutto ciò che di “artificioso e vacuo, inconsistente e caduco” a tale stile era legato. Come dire: la Biennale puntava all’universalità dell’arte, non ai capricci della moda. Le sale regionali italiane erano legate alla “varietà degli istinti regionali del genio italiano”. Ecco quindi l’ingresso, sotto questa nuova etichetta, di mobili e oggetti vari di arte applicata, compresi vetri e ceramiche. Si salutava questa nuova “atmosfera di ritorno all’italianità”: e, ben si osservi, mancavano ancora vent’anni all’avvento della prima retorica fascista.

Vasi Spiraline, 1954. Mezza filigrana rinascimentale interrotta da intrecci di fili che rompono I’unicità della tramatura. Vaso a boccia sferoidale con collo conico bordato da fili ametista intrecciati, decorato a mezza filigrana bianca interrotta da liberi intrecci di fili ametista. H. cm. 17. Vaso sferoidale con collo a forma di quadrifoglio, in vetro trasparente, decorato a mezza filigrana bianca interrotta da liberi intrecci di fili ametista. Vaso di forma irregolare in vetro trasparente con collo cilindrico bordato da fili ametista intrecciati, decorato a mezza filigrana bianca interrotta da liberi intrecci di fili ametista. H. cm. 21.

Biennale 1968. Vasi a fili, “ognon”. Vasi con strozzature regolari o degradanti, con decorazione e sfumature del colore date dalla sovrapposizione di fili verticali lilla o bianco opaco.

Piccione a festoni, 1954, h. cm. 15. Vasetto a forma di uccello con apertura sulla coda in vetro trasparente decorato all’intemo da segmenti diagonali di fili ametista alternati a fili di lattimo continui.

Due anni dopo, 1905, comparvero le prime sale straniere; e nell’edizione successiva (1907) prese il via, con il padiglione belga, un’innovazione che oggi appare addirittura geniale: il Comune cominciò a cedere ai Governi stranieri la proprietà di appezzamenti di terreno ai Giardini su cui costruire singoli padiglioni nazionali. Già nel 1909 sorsero, dopo quello belga, i padiglioni di Germania, Gran Bretagna e Ungheria. Questa nuova strutturazione dell’Esposizione consentì al Comune di risparmiare parecchio denaro (anche per l’Esposizione del centenario gli stranieri si sono sobbarcati spese per parecchi miliardi) ma diede autonomia ai singoli Paesi. Così, dal 1909, anno in cui nasce Archimede Seguso, le arti decorative rientrarono alla Biennale in modi e forme diverse. In sostanza le arti decorative, cacciate dalla porta, rientrarono dalla finestra. La mostra del centenario attualmente allestita a Ca’ Pesaro dal Comune di Venezia dimostra la straordinaria bellezza di oggetti esposti alle Biennali fino alle soglie della Grande Guerra. Spiccano i vasi decorati di Galileo Chini, la vetrata di Giovanni Beltrami, i mobili di Ernesto Basile, la fioriera in legno di Vincenzo Cadorin, i copriporta di Giuseppe Norsa, le terraglie di Giacomo Vivante, i ferri battuti e vetri di Umberto Bellotto, per limitarsi agli italiani ante 1914. Ma rimase sempre una sorta di ostracismo per tutto ciò che non fosse pittura e scultura: tanto che nel 1928, segretario Maraini, venne ricoperto a opera di Gio Ponti lo splendido ciclo decorativo di Chini sulla cupola del padiglione centrale. Subentrava un nuovo concetto di ornamento, di cui a Venezia fu massimo esempio proprio Gio Ponti.

Vaso-bottiglia a forma di fiaschetta in vetro trasparente decorato verticalmente con segmenti diagonali di fili bianchi alternati a fili continui e paralleli ametista. H. cm. 34.

Nel 1934 esordiva alla Biennale come designer di vetri Carlo Scarpa; e non a caso quello fu l’anno in cui si diffondeva in Italia il gusto del Bauhaus e in genere dell’arte astratta (da Gropius a Mondrian). Fu così che, in una concezione massimalista dell’arte, oltretutto propugnata dal fascismo, quello che veniva considerato artigianato venne confinato in uno spazio apposito: nacque nel 1932 il padiglione Venezia riservato alle arti decorative, ed in particolare al vetro. Era un riconoscimento ma anche, come si dice oggi, una ghettizzazione. In realtà non venne mai affrontata a fondo la distinzione tra creazione autonoma artistica e produzione artigianale-industriale, che sta ancora alla base dei molti equivoci che pesano soprattutto sul vetro. II padiglione Venezia ebbe comunque una sua preziosa funzione perchè, mettendo in gara le migliori botteghe d’arte vetrarie di Murano, svecchiò il loro gusto aprendolo alle grandi istanze dell’arte europea e da allora Archimede Seguso diventa uno dei più celebrati protagonisti.

Dopo la burrasca sessantottina anche questa distinzione cadde; e, dal 1972, il padiglione Venezia venne chiuso.

 

IL CENTENARIO DELLA BIENNALE

 

QUANDO L’ARTIGIANO
DIVENTA ARTISTA

Un punto nodale: la distinzione tra designer ed esecutore. Un maestro “completo” nel panorama storico del vetro muranese: Archimede Seguso.  Merletti e filigrane in rapporto stretto con la pittura segnica del tempo. Una qualità tecnica inarrivabile ed un estro creativo unico.

Biennale 1958: Lampada a bolle

La Biennale del centenario, nella sua sezione di Ca’ Pesaro, dedicata ai vetri, ci dà la possibilità di seguire l’itinerario artistico di Archimede Seguso nella periodica scadenza delle sue partecipazioni nel padiglione Venezia. E’ qui, in questa sede della Biennale, proprio a confronto con le opere “maggiori” dei maestri della pittura e scultura che si può misurare quel quid di creazione artistica, quindi anche di qualità estetica individuale, che contraddistingue coloro che un’antica consuetudine ha relegato nel ruolo di artigiani. Che significa, in realtà, operare su una materia così difficile ed infida come il vetro? Quale ruolo va dato al progettista, al designer, cioè a colui che “disegna” l’opera, e quale all’esecutore materiale? Dove e come si possono unire queste, entrambe indispensabili, funzioni?

Troppi equivoci, e non poche ipocrisie, hanno pesato e pesano ancora sull’intero comparto del vetro d’arte, soprattutto nell’ambito della “famiglia” muranese, che è certo tecnicamente la più alta non solo in Italia. Nel catalogo del “Vetro di Murano alle Biennali 1895-1972” (Leonardo editore) si compie un tentativo di distinguere, appunto, designer da esecutore. In molte schede, peraltro, c’è soltanto un nome, che è generalmente quello del designer; e l’esecuzione viene demandata in genere, ad una ditta. Così, appaiono in sfilata i maggiori artisti del vetro operanti a Murano in questo secolo: Zecchin, Wolf Ferrai, Bellotto, Martinuzzi, Balsamo Stella, e poi più avanti Carlo Scarpa, Flavio Poli, Ercole Barovier e altri, fino appunto al 1972, quando come abbiamo scritto, il padiglione Venezia viene chiuso e cessa la presenza del vetro alle Biennali. Ma questi ben noti nomi sono realmente gli autori dei vetri volta a volta esposti? Osservando attentamente si scopre che al meno nella vastità del panorama cronologico, Archimede Seguso figura con entrambe le dizioni. Egli è, inequivocabilmente, il più completo artista del vetro a Murano, per aver assunto in sè la qualità del designer progettista e quella dell’esecutore, cioè del maestro vetraio. Il che può dar fastidio a qualcuno – lo diciamo al di fuori dalla mischia, con spirito di obiettività- ma è un dato inoppugnabile, che non intende certo sminuire l’opera di tanti altri nomi che hanno fatto la fama del vetro muranese in questo secolo, inserendolo nelle più vivaci correnti del gusto europeo. Chi soltanto ha dato, qualche volta, un’occhiata da profano ad una fornace del vetro, si rende subito conto di quanto complessa sia la lavorazione e di quanto importante (anzi determinante) sia la manualità dei vari interventi tecnici, sia nel soffiato sia nel massello. Ben più che nella ceramica, la fluidità stessa del vetro esige un controllo manuale, quindi personale, che la progettazione può soltanto, latamente, indicare nella fase “a freddo” del disegno su carta. Questo argomento, davvero basilare, è sempre stato sviato anche dai più attenti storici e cronisti dell’arte vetraria: con la conseguenza, oltretutto, che alcuni straordinari maestri vetrai sono passati del tutto inosservati, addirittura ignorati. Lo spiega anche la diversità stilistica, intesa come impronta personale, che si riscontra in vetri che pur appaiono sotto la dizione dello stesso designer, senza contare certi scarti, anche nello stesso anno, piuttosto inspiegabili se si vuol far riferimento ad un’ attività artistica e non a quella, magari più vasta, di tipo artigianale, rispondente a intenti commerciali.

Biennale 1956. Vasi e coppa piume. Piume vibranti di canne di vetro colorato immobilizzate nel vetro di vasi e coppe. Vasi e coppa piume in vetro giallo sfumato rubino decorati internamente da piume dai diversi colori opachi. H. cm40; h cm38; diam. cm 31.

Da questo punto di vista la Biennale ha fatto partire le presenze di Archimede Seguso dal 1952, in modo da rappresentare un itinerario, appunto a scadenza biennale, rettilineo e coerente. In verità, Archimede aveva esordito alla Biennale nel 1936 con una bellissima boccia in vetro blu cobalto accordato con foglie d’oro e sommerso da un trasparente bullicante a più strati (Coll. Cassa di Risparmio). Allora Archimede aveva 28 anni, ma aveva già un’esperienza straordinaria ed una tecnica che ne faceva un autentico maestro. Vennero poi le sculture vere e proprie in vetro massiccio (famoso è diventato l’lppopotamo esposto nel 1938) che gli confermarono I’appellativo, poi rimasto, di “maestro degli animali”. Archimede fu sempre uno sperimentatore geniale: ha inventato nuove tecniche, nuovi effetti vitrei, nuove procedure. Nel 1950, sempre alla Biennale, egli esponeva ad esempio un nudo di vetro iridescente sommerso nel cristallo. La sua fantasia si univa ad una qualità che era anche, inizialmente, quella di un chimico-fisico, cioè di un manipolatore (quasi alchemico e quindi misterioso) di soluzioni volta a volta sorprendenti. Di ciò, in verità, a lui e sempre stato dato atto.

Ma, per tornare all’itinerario che ci offre la Biennale del centenario a Ca’ Pesaro, il momento in cui appare in pieno la personalità stilistica di Archimede Seguso è il 1952, quando egli espose un gruppo di vasi a merletto eseguiti cioè con un lievissimo groviglio di fili bianchi o ametista, risultato (come si nota nel catalogo) di un’abilissima rielaborazione di canne. Due anni dopo, ecco altri vasi con simile tecnica: filigrane finissime come segni liberi nello spazio, orditi fitti e pur estrosi, canne serpeggianti nella cadenza curvilinea. Visti oggi, questi affascinanti oggetti, nella loro aerea trasparenza di segni sfarfalleggianti e insieme compatti furono il destro a riferimenti stilistici sorprendenti. La linea deirinformale segnico di radice orientale (che ebbe i suoi caposcuola in Wols, Tobej e Michaux, per non fare altre citazioni) non era ancora apparsa, in quegli anni, alla Biennale; ma Archimede Seguso aveva colto nel l’aria i segni del tempo, unendo la sua matrice veneziana (quindi orientale) al gusto moderno che si andava espandendo.

Biennale 1958. Lampadario formato da listelli di vetro a bambù multicolori e cristallo con decorazioni a merletto.

Fantasia bianco-nera, decorazione a fantasia in vetro nero e bianco opaco. Vaso fantasia bianco-nera, h. cm. 46.

Non è fuori luogo inserire questi vetri in una temperie storica che allora andava formandosi nella pittura. Quella stessa linea dell’Informale confluì qualche anno dopo, con una struttura più rigorosa di segni, nella corrente della Op Art (da Vasarely alla Riley). Anche qui Archimede Seguso offre esempi finissimi: è un rispecchiamento dei tempi ma anche (e va sottolineato) una consapevolezza della radice culturale-ambientale veneziana. Come non correlare alla “gran madre lagunare” quei segni che si snodano nello spazio con un ritmo incredibilmente sotteso e nel contempo liberissimo? II vetro diventa aria che freme, sottile colore che si scioglie, magari un fremere di onde o di erbe, riflesso di una vibrazione che unisce terra, acqua e cielo. In altre parole: c’è la captazione di un gusto artistico internazionale (ripetiamo: internazionale) e parallelamente un rispondere alle suggestioni della venezianità categoriale. II che non rispecchia solo un momento della creazione artistica di Archimede Seguso, ma tutto un percorso che, anche nell’itinerario, pur ovviamente sommario, della Biennale si snoda perfettamente conseguente agli assunti iniziali.

Biennale 1966. Vasi colori sovrapposti. Vasi con sfumature verticali dal rubino al giallo con applicazione di nastri in vetro blu.

Breve collaborazione con il Prof. Rincicotti col quale Archimede Seguso elabora una serie di decorazioni ad acido su piatti e vasi, creando effetti cromatici sullo spessore di vetri sovrapposti. Frutto di questa collaborazione è anche la grande scultura presentata alla Biennale del 1966, in cui gli elementi di vetro colorato a lastra, usati come tessere di un mosaico, sono intelaiati in una struttura di ferro-cemento.

Biennale 1962. Fili continui, fili bianco opaco posti verticalmente, che scendono sempre paralleli, seguendo le curve dell’oggetto, distanziandosi o avvicinandosi senza mai perdersi di direzione o di numero. Coppa a fili continui in vetro trasparente con piede semisferico. H cm 15.

Le filigrane ad intrecci, i merletti, i fili lattimo serpeggianti, le piume, le fasce rigate, i fili continui, le filigrane stellate: tutte le variazioni che la fantasia di Archimede ha messo in essere in mille e mille stupendi vetri non nascano dal caso nè da supini adeguamenti alle mode nè da intenti commerciali nè da puri giuochi a se. Questa linea artistica, che meriterebbe un giorno di venire accostata a più famosi esempi pittorici contemporanei, non esclude ovviamente l’esplosione dell’estro inventivo di Archimede. Ad esempio in molte opere è il colore, coi finissimi cangiantismi del sommerso, che trionfa; in altre prevale la qualità scultorea vera e propria (ed abbiamo già notato altre volte l’accostamento a maestri come Arturo Martini, Marino Marini e Messina). Finchè magari sia arrivata a quella strabiliante grande scultura policroma, realizzata nel 1966 in collaborazione col pittore Luigi Rincicotti, in cui elementi di vetro colorato a lastra, usati quasi come tessere di un mosaico, sono intelaiati in una struttura di ferro-cemento.


II gioco, scultura policroma, h. cm. 207.

Vaso filigrana stellata in vetro trasparente decorato internamente da tessere di filigrana bianca con motivo stellato, h. cm. 35.

Poi, come s’è detto, l’avventura del padiglione Venezia si chiude, come risultato di una contestazione che oggi non si può non giudicare negativa e improducente. Finisce la serie delle mostre del vetro alla Biennale: ma non finisce certo l’itinerario creativo di Archimede Seguso, ancora oggi, ottantaseienne, attivissimo quotidianamente nella sua multiforme fucina muranese. Nel frattempo molti equivoci stanno sciogliendosi; e la storia del vetro muranese assume una dimensione storica più corretta. Emergono i veri contributi di creazione artistica, al di là delle mode; e quando questi contributi sono nutriti, come nel caso di Archimede Seguso, da una perizia tecnica unica, il prestigio dell’artista esce dalla dimensione artigiana e da quella stessa del puro designer.

Biennale 1964. Vaso aleante, vaso dai colori tenui sommersi e sfumati, nei quali la molatura produce effetti cromatici in movimento

 

PARTECIPAZIONI DI
ARCHIMEDE SEGUSO ALLE BIENNALI

1936 XX Biennale Boccia
bullicante, h. cm. 16, diam. cm. 22, design Flavio Poli. Bollicine d’aria di uguale dimensione disposte a strati sovrapposte nella massa vetrosa di grosso spessore.

1938 XXI Biennale
Ippopotamo, h. cm. 8,5 design Flavio Poli. Scultura in vetro verde nord acidato, lavorato a massello raffigurante un ippopotamo che emerge dall’acqua formando con questa un unico blocco.

1950 XXV Biennale
Nudo Scultura di nudo in vetro iridescente sommersa nel cristallo.

1952 XXVI Biennale
Vasi e coppe “Merletto” Fitta rete tridimensionale a trama ininterrotta o con “occhi” o “finestre” in vetro bianco opaco o ametista.

Vasi e coppe “Fantasia a nastro” Decorazione interna in vetri bianco e ametista a fantasia diagonale.

1954 XXVII Biennale
Vasi e coppe “Composizione lattimo” Fasce rigate da fili di lattimo, distinti e ravvicinati, ma non incrociati, curvate con accentuazioni diverse.

Coppa composizione lattimo

Vasi e coppe “Spiraline” Mezza filigrana rinascimentale interrotta da intrecci di fili (filigrana lattimo con 

intrecci di fili ametista o viceversa), che rompono l’unicità della tramatura.

Vasi e coppe “Festoni” Fasce rigate con segmenti di fili lattimo e ametista, poste sull’oggetto verticalmente o a festoni.

1956 XXVIII Biennale
Vasi e coppe “Piume” Piume vibranti di canne di vetro colorato immoblizzate nel vetro di vasi e coppe.

1958 XXIX Biennale
Vasi e coppe “Fantasia bianco-nera”
Decorazione a fantasia in vetro nero e bianco opaco

Ceneriere in vetro alabastro Ceneriere con bordo sinuoso ed irregolare formate dalla sovrapposizione di piu strati di vetro alabastro.

Ceneriera vetro alabastro

Lampada a fasce concentriche a spirale multicolore Lampada ovoidale Lampada a bolle

1960 XXX Biennale
Vaso e coppa bleu

1962 XXXI Biennale
Vasi e coppe “Fili continui” Fili bianco opaco posti verticalmente, che scendono sempre paralleli, seguendo le curve dell’oggetto, distanziandosi o avvicinandosi senza mai perdersi di direzione o di numero.

1964 XXXII Biennale 
Vaso e coppa “Aleante”

Vaso e coppa dai colori tenui sommersi e sfumati, nei quali la molatura produce effetti cromatici in movimento.

1966 XXXIII Biennale
Vasi colori sovrapposti Vasi con sfumature verticali dal rubino al giallo con applicazioni di nastri blu.

Vasi colori sovrapposti Vasi in vetro giallo trasparente con sovrapposizioni o colate asimmetriche di vetro rosso.

Scultura policroma “II gioco” Breve collaborazione con il prof. Rincicotti col quale Archimede Seguso elabora una serie di decorazioni ad acido su piatti e vasi, creando effetti cromatici sullo spessore di vetri sovrapposti. Frutto di questa collaborazione è anche la grande scultura presentata alla Biennale del 1966, in cui gli elementi di vetro colorato a lastra, usati come tessere di un mosaico, sono intelaiati in una struttura di ferro-cemento.

1968 XXXIV Biennale
Vasi e coppe “Filigrana stellata” Decorazioni di tessere di filigrana bianca con motivo stellato.

Vasi e coppe a fili Vasi con strozzature regolari o degradanti con decorazione e sfumatura del colore date dalla sovrapposizione di fili verticali lilla o bianco opaco.

1972 XXXVI Biennale
Vasi “Optical Art”

Vasi spinati: decorazione interna con fili di lattimo a spina di pesce

Vasi a petali: decorazione interna, alla base degli oggetti, con fantasie di petali di lattimo.

 

IL CENTENARIO DELLA BIENNALE

 

QUEI DIONISIACI
“SOMMERSI”

La pulsione del color fluido e cangiante emerge nei vasi creati oggi come ieri da Archimede. Un design che viene dal Nord, una eleganza cromatica che nasce dal gran gusto veneziano. Come si scioglie I’algore delle forme massicce ed essenziali degli anni ’50

Biennale 1958: Lampada Vaso in vetro blu sfumato rubino con base in vetro trasparente, 1958. Oggetto esposto, tra gli altri, nel 1990 anche ad Otaru, in Giappone, in occasione della mostra dedicata al maestro Archimede Seguso a bolle

Anche nel vetro, come nella stessa pittura si fronteggiano spesso due categorie estetiche: l’apollinea e la dionisiaca. La prima fa prevalere l’eleganza di una modulazione “classica”, cioè equilibrata e strutturalmente congruente, della forma colore; la seconda accentua gli aspetti espressivi, spesso con una esasperazione degli aspetti segnici e di quelli cromatici. La sequenza storica di questa Biennale del centenario ha confermato che entrambi gli aspetti sono presenti nella produzione di Archimede Seguso, pur nell’arco di cinquanta e più anni. Apollinei sono senz’altro i vasi di cui abbiamo già parlato, con quella finezza di intrecci e reticoli segnici su un tessuto di straordinaria leggerezza e trasparenza. Dionisiaci sono altri altri vasi o sculture in cui prevale l’elemento principale della categoria dionisiaca: la forza simbolica-espressiva del colore. E dobbiamo dire che non di rado entrambi gli aspetti si conciliano: cosicchè la classicità di Archimede può ben vantarsi di un calibratissimo bilanciamento, nutrito da una personalità artistica indubbia. I “sommersi” di Archimede, eseguiti in questi ultimi tempi ma già presenti fin dagli anni Quaranta e prima, rappresentano proprio il trionfo del colore, intese come pulsione vitalistica primaria. Si sa: è stato nei primi anni Cinquanta, in seguito a tutta un’evoluzione del design, che specie al Nord Europa si imposero le forme semplici e ben bloccate, massicce e nel contempo eleganti. Proprio allora Archimede Seguso compì un viaggio tra Danimarca e Scandinavia, soffermandosi soprattutto in Finlandia e Svezia. Qui rimase colpito dalle forme purissime dell’artigianato locale; che a dire il vero s’erano già diffuse al Sud, anche tra i designers muranesi. Quelle forme apparvero però ad Archimede un po’ troppo “frigide”, cioè prive di quel calore che non poteva essere dato dal sole del Sud, cioè da una sensibilità mediterranea. Ecco quindi che, tornato a Murano, il maestro tentò di dare a quelle forme dal massiccio spessore e dall’essenzialità geometrica una finezza cromatica che al Nord non c’era. Nacquero e si svilupparono con gli anni, in contemporanea al merletti e alle filigrane, cioè alla rinnovata tradizione del gusto leggero veneziano, i “sommersi” dai colori d’un suggestivo incantato cangiantismo. E’ come se il colore si sciogliesse, diventasse aria, quasi espandendosi nel vetro fluido in movimento. Tutto diventava magmatico, risolvendosi nella forza simbolica primaria del colore. I vasi di allora e quelli di oggi sono esempi tra i più alti di come la sensibilità squisitamente veneziana di Archimede Seguso possa “scaldare” un design che, li al Nord e in genere fuori di Murano, appariva d’un algida compassata purezza.

Caraffa con base, vetro verde e ambra, 1954. Oggetto esposto anche ad Otaru, Giappone, nel 1990 nella mostra dedicata al maestro.

Attualmente i vasi sommersi di Archimede sono esposti in una mostra parallele proprio sul tema che le Antichità Micheluzzi hanno allestito nel loro elegante spazio ai piedi del ponte della Maravegie (le ineffabili “meraviglie” veneziane) nella zona centralissima dell’Accademia. Altre opere di Archimede Seguso sono mostrate al pubblico, oltre che a Ca’ Pesaro nell’ambito della sequenza dei vetri storici della Biennale ed a Parigi al Passage DeRetz con la mostra “L’art Du Verre a Murano au XX’™e siecle”, nell’ambito dell’esposizioni “Maestri vetrai creatori di Murano del ‘900” a Palazzo Bellini a Comacchio; in quel grande e prestigioso Museo del vetro che si trova a Corning, negli Stati Uniti con la mostra delle murrine.

Ma in realtà le creazioni, sia storiche sia attuali, di Archimede Seguso girano continuamente il mondo. Esse sono il segno di un autentico “rinnovamento nella tradizione” che ha compiuto il vetro d’arte di Murano, al di là di manierismi e ghiribizzi. E proprio in questo ambito la personalità artistica di Archimede designer ed esecutore, cioè (lo ripetiamo) “artista completo”, si sta imponendo tra coloro che ancora amano e apprezzano le schegge di una Bellezza che sfugge alle regole impietose del tempo.

Vasi colori sovrapposti, 1966. Vasi in vetro trasparente giallo brillante con rosso sovrapposto nella parte inferiore. H. cm. 26 e cm. 35.