QUADERNO 5

Ecco un’altra foto storica: è stata scattata il 10 ottobre 1948 all’inaugurazione dell’attuale fabbrica di Murano. Si distingue al centro, festeggiatissimo, Archimede Seguso con il calice in mano… e qualche capello in più. Da allora la Archimede Seguso è diventata una fucina-leader della creazione artistica del vetro. Ottantacinquenne, il grande maestro vetraio continua a produrre splendide sculture che suscitano ammirazione in tutto il mondo.

 

PRESENTAZIONE

 

SI PARLA IN VETRO

Il vetro come “cultura in movimento”. Siamo al quinto dei “Quaderni di Archimede” e, forse, una pacata filosofia s’è insinuata in queste pagine.

Emblema dell’effimero ma anche della persistenza nel tempo, segno di una bellezza espressa da luce e colore, durissimo eppur apparentemente fluido, il vetro è un materiale d’arte particolarmente adatto alla temperie culturale del nostro tempo, essa stessa così eclettica e, per molti versi, ambigua.

Al di fuori da finalità commerciali, questi Quaderni intendono far riflettere sulla storia di ieri e sulla storia di oggi, nella filigrana di un artista, come è stato ed è Archimede Seguso, che ha interpretato in modo impareggiabile l’essenza del vetro in più di mezzo secolo di produzione ormai storicizzata. Una linea estetica, ma anche qualcosa che va al di là del gusto e che intende rispondere a stimoli di autentica ampiezza culturale.

Dopo il Quaderno monografico n°4, dedicato ad un avvenimento come la Esposizione di Lione, la struttura del fascicolo torna alle modalità consuete. La prima parte è dedicata al tema, così affascinante, del Carnevale veneziano, visto attraverso i vetri di Archimede; quindi un altro argomento per certi versi attuale, cioè riferentesi alla Pasqua: le originali uova di Archimede, diventate qualcosa di simile ai famosi Fabergé, ricercatissime da un mercato ormai di modernariato. Infine gli accenni alle “Proposte d’oggi”, soprattutto al successo ottenuto dal ciclo delle “Rotture” nella mostra di Lione, presso la Galleria Hermes, in rue Auguste Comte e il prestigio della mostra retrospettiva allestita nella Hall d’Honneur del Credit Lyonnais.

 

ATTUALITÀ CULTURALE

Bottiglie e anfora in vetro alabastro rosa, 1959, h. cm. 60; 50; 21.

L’AMBIGUA FOLLIA
DEL CARNEVALE

Tre vasi rosa sulla balaustra di Palazzo Ducale, tre presenze “mascherate”. La sindrome dello sdoppiamento, il vetro come verità e bugia. Dai Pierrot svuotati alle jazz band. Il colore come simbologia dell’effimero.

Vaso “primavera stellata”, 1992, h. cm. 32×23, e vaso “raggi colorati”, 1992, h. cm 27×20.

Tre vasi rosa appoggiati sulla balaustra di Palazzo Ducale: di fronte ad essi il Bacino San Marco, l’isola di San Giorgio, un lembo della Giudecca. E’ una vecchia fotografia dell’archivio di Archimede Seguso: piace soprattutto per l’accordo perfetto tra il rosa dei vasi e l’azzurrino della laguna.  Ma a ben guardare c’è qualcosa di più che l’elemento estetico, cioè il piacere dell’accordo tra forma e colore. Laggiù, sulla riva in penombra, si scorge la parata delle gondole ormeggiate e, accanto, alcune “macchiette” (come le chiamava Canaletto) di gente che cammina o osserva. Ecco che all’improvviso quei vasi diventano anch’essi figure, o almeno presenze antropomorfiche, segnali di una colloquialità umana. Che dire? Sono dei personaggi. Potrei aggiungere: sono “maschere”.

Venezia ha questa strana, conturbante capacità, come ha ben osservato Georg Simmel, di ridurre ogni cosa che vi si specchia alla sua natura sfuggente, prensile, ambigua. La Città Anadiomene, uscita come Venere dalle acque del mito, assorbe e ingloba le sensazioni trasformandole in stati d’animo diversi. E’ quella che è stata definita “sindrome di Carnevale”. Il mascheramento nasce dalla qualità allusiva, quindi dalla motilità psicologica: ed è l’emblema stesso dello sdoppiamento.  Terra e acqua; marmi e aria; essenza e apparenza; calma assoluta e vibrazione sentimentale. Si potrebbe aggiungere: Eros e Thanatos, Apollo e Dioniso. I contrari si scontrano, ma nel contempo si amalgamano… Verità o bugia?  Come dire: è più vera la maschera del volto stesso?

Vasi e coppa “Carnevale”, 1989, h. cm. 20, 17, circ. 17. Vasi a coppa con bordo in parte rientrante, decorati interamente da fasce longitudinali in vetro rubino, verde e blu separate da fili ametista.

Vaso e piatto “Carnevale”, 1989, cm. 26×30 e circ. cm. 33. Vaso a fiasca decorato internamente da due fasce verticali in vetro giallo e blu che si sfumano leggermente su una fascia centrale in vetro trasparente. Piatto in vetro giallo trasparente decorato da anelli concentrici in vetro ametista, cristallo e blu.

Curioso: è proprio il vetro a rendere, non solo simbolicamente, questa dualità del Carnevale veneziano. Esso è materia dura eppur fragile, impenetrabile, solida eppur trasparente. E’ I’inganno stesso, secondo Thomas Mann, di un topos che e atopos da cui si vuole, come dalla Medusa, fuggire, ma in cui si finisce sempre per tuffarsi voluttuosamente. I vasi rosa abitano, in realtà, in questa città reale eppur immaginaria: ne fanno parte come i Pilastri acritani strappati dalla loro enigmatica storia. Quando il vetro si incontra con Venezia e Venezia si trasforma nell’illusorio rito del Carnevale, avviene quel miraggio orientale di cui parlava Diego Valeri: una stregoneria di fata Morgana che ci impedisce di distinguere i due corni del dilemma. Appunto: essenza o apparenza? Ruskin vedeva – ma direi meglio: stravedeva – “le vene azzurrine di Cleopatra” guizzare sui marmi della Basilica d’oro. Quelle vene azzurrine sono i filamenti stessi, le filine, i merletti del vetro.

Archimede Seguso l’ha capito perfettamente. Già negli anni Trenta o quaranta, ma soprattutto in quel fecondo decennio dei Cinquanta, egli ha interpretato il tema del Carnevale Veneziano. I Pulcinella, i Pierrot, i Sor Bonaventura, gli Arlecchini, le stesse bautte, diventano dei pretesti per raccontare nel vetro la fragilità esistenziale di tutto ciò che è sentimentalmente veneziano, legato quindi alla malinconia dell’effimero. Ecco un Pierrot disteso, trasparente con i suoi elegantissimi bordi e bottoni neri. Lo si osservi bene: non è un Pierrot, è il vestito di Pierrot. La fisicità è uscita: non ha volto. E’ rimasta l’anima, che pare sciogliersi quando i rintocchi delle Ceneri annunciano la fine della festa. Come non ricordare gli stupendi disegni dell’album che Giandomenico Tiepolo ha dedicato alla “vita e morte” di Pulcinella? Lui, Pulcinella, ride e sghignazza; poi si stende sul letto di morte con la sua smorfia triste.

Carnevale 1971. Sculture lavorate a massello in vetro trasparente e nero. Finito il carnevale, rimane il costume abbandonato dall’uomo.

Pierrot, 1952, h. cm. 29. Scultura a massello in vetro trasparente e merletto bianco con decorazioni in vetro opaco nero.

Guardiamo ancora i vetri del “Carnevale di Archimede”. La loro gioiosità persino sfrenata cela sempre, sul fondo, una punta di malinconia. I Pierrot giocano celebrando il rituale dell’effimero: ne sono consapevoli, come indicano le mascherine che riflettono il “regard enterieur”, cioè la profondità immota della psiche. II fortunatissimo Bonaventura sa che alla fine dell’estate Prosperina dovrà rituffarsi nella notte dell’Ade; è il gesto apparentemente lezioso della danza non è che la vibrazione inquieta dell’animo… Esagero? Gli anni cinquanta sono l’epoca del trionfo delle jazz band. II frastuono della Rue Royale di New Orleans si è trasferito in Piazza San Marco: vediamo quasi il faccione rubizzo di Louis Armstrong tra i colombi. Sui contrasti del bianco e del nero, Archimede costruisce una sua “rappresentazione dell’uomo”: appunto l’ambiguità del Carnevale. Le lacrime di Charlot si mescolano al balletto, mentre il sassofono ci assorda. Cos’è, questo, se non la maschera stessa di una situazione dell’animo? Venezia è là, in agguato. Essa trasforma tutto in illusione. L’acqua è come I’aria: non si può afferrare. La festa ci sfugge di mano, non la dominiamo più. E’ come il vestito bianco e nero di Pierrot: si affloscia. Ed ecco in due vasi coloratissimi la forma stessa disfarsi, quasi sciogliersi. Resta il puro colore: e su di esso Archimede giuoca con impareggiabile maestria. II colore diventa appunto simbolo di una felicità effimera: esso s’intrinseca in mille cangiantismi, in mille preziosità liquide. Le fasce di filigrana policroma scorrono come riflessi estemporanei dell’onda che sbatte sulle rive marciane. Sono pura luce. Ed è così, come nell’abbaglio dei mosaici marciani, che si risolve la gran fiaba di Archimede, apologia di un Carnevale folle e triste.

Vaso e coppa “Carnevale”, 1989, circ. cm. 33, h. cm. 35. Vaso e coppa a cartoccio dai cromatismi vivaci che cangiano dal giallo al rosso rubino al blu.

Piatto “primavera stellata”, 1992, h. cm. 9, circ. cm. 43. Piatto in vetro trasparente decorato internamente nella parte centrale da quattro fasce di filigrana policroma.

Uovo “Carnevale”, 1989, h. cm. 32 . Uovo in vetro soffiato di colore rubino e cobalto con “occhi” cristallo e nastro ellittico in vetro verde profilato ametista.

“Pierrot”, 1957, h. cm. 31; h. cm. 21. Maschera e maschera portacandela in vetro opaco bianco; veste con costolature mosse e decorazioni in vetro opaco nero e cristallo con oro.

“Guitti”, 1957, h. cm. 20 e cm. 29. Figure in vetro opaco bianco con vestito a petali con sfumature dai colori tenui e decorazioni in cristallo oro.

 

SGUARDO AL PASSATO

 

LE MAGIGHE UOVA
PASQUALI

Dal 1982 si ripete la produzione di una serie sempre più apprezzata dal collezionismo. Una sfida alla geometria pura: ventaglio straordinario di luci e colori tra cangiantismi, capricci ritmici e iridescenti trasparenze.

L’uovo di Fabergé era, ben si sa, il più gradito e prezioso dono pasquale che lo Zar faceva, ogni anno, alla Zarina. La magnificente ricchezza, la strabiliante qualità artigianale, oltre che la rarità, hanno fatto oggi delle uova di Fabergé uno dei top del grande collezionismo mondiale. Con diverso spirito, ma con un culto simile per il bell’oggetto da conservare gelosamente, Archimede Seguso dal 1982 produce ad ogni ricorrenza pasquale un uovo speciale, realizzato in 130 esemplari numerati (cento con numeri arabi e trenta con numeri romani) che è ormai diventato una “preziosità” del collezionismo colto in vetro. Nella vetrina dell’ideale museo del vetro d’arte del nostro tempo questa serie si pone indubbiamente in prima fila.

Si potrebbe dire: I’uovo di Archimede è una sfida. Esso parte da una forma che è immutabile, fissa, quasi un archetipo. Viene esclusa qualsiasi modalità di “capriccio plastico”: siamo nella geometria pura. Sembrerebbe ridursi il ventaglio di possibilità espressive dell’artista, invece esso è volto ad una forma interiore che diventa essenzialmente luce-colore. Le uova di Archimede (ne sono state prodotte finora sedici, considerando anche un “Arlecchino” fuori serie) sono l’esaltazione delle qualità intrinseche del vetro: laddove la scultura – se così possiamo chiamarla – sembra fatta con il raggio laser, impalpabile, intangibile, quasi al di là della materia stessa. Una goccia luminosa, che al suo interno conserva il nucleo di una vitalità primordiale, arcana, magica.

Soltanto Archimede Seguso sa con quale straordinaria perizia tecnica queste uova sono realizzate. Ognuna è diversissima dall’altra: c’è quella che giuoca tutta sulle trasparenze iridescenti; quella che s’avvolge di sinuosi ritmi a spirale; quella che dall’oscurità della notte estrae una piuma dorata; quella che s’avvale di un cangiantismo fluido; quella che cova nel suo seno estrose gocce d’aria; quella che pare esplodere a girandola in coloratissimi filamenti; quella che nasconde quasi una cadenza di giocoso flamenco; quella bifrontale che accarezza specularità magica che… E I’ultima? L’ultima, quella per la Pasqua 1995, è fatta di rapidi guizei di corallo che s’inerpicano ritmicamente in un contesto di spicchi di cristallo dorato, tanto da ricordare una tecnica pittorica di fine Ottocento: quella del pointillisme (il neo-impressionismo di Seurat) cosicchè ne è derivato l’estroso nome tronco di Pointy. Ogni uovo un’invenzione: ogni uovo un modo per fare arte.

E’ curioso, ma perfettamente spiegabile: quando alle qualità artistiche si accoppia anche la rarità, cioè l’assoluto rigore nella produzione, il collezionismo corre. Le uova di Archimede, come quelle (mutatis mutandis) di Fabergé stanno correndo il mondo. Vengono contese dai veri amatori. Per alcune, particolarmente pregiate e quindi contese, il prezzo è già quintuplicato. Lo diciamo proprio per far capire l’amore che circonda l’arte magica di Archimede. Collezionisti amano conservare nelle loro vetrinette questi piccoli gioielli. E’ uno “sguardo al passato” (anche se passato prossimo) che indica quanto sia indispensabile, per l’uomo d’oggi, attorniarsi di qualcosa di raffinato che gli dia testimonianza di un raccordo tra l’oggi e l’ieri, tra le nevrosi del viver quotidiano e il conforto di una bellezza fuori del tempo. II collezionismo colto, in fondo, è proprio un ponte leggero, sospeso sulle nuvole di una realtà che non muore. Non occorre essere dei chiromanti per leggere all’interno delle uova di Archimede.

 

PROPOSTE D’OGGI

 

IN MOSTRA A LIONE

“Cavalli”, 1994, cm. 34×48. Scultura di teste di cavalli a massello in cristallo oro in esposizione nella Hall d’Honneur della sede del Credit Lyonnais di Lione per la mostra “Archimede Seguso Maitre verrier a Murano”.

I lusinghieri commenti della stampa e del pubblico francese. Al centro dell’interesse la mostra retrospettiva allestita nella Hall d’Honneur del Credit Lyonnais. Accolte con grande favore “Rotture” e le opere della tradizione.

Paolo Rizzi mentre visiona le ultime creazioni di Archimede Seguso della serie “Carnevale” nella fabbrica di Murano.

“Scultore di luce, l’ultimo maestro vetraio di Murano fa delle sue opere una festa veneziana, in cui giocano i riflessi del Palazzo Ducale e del ponte di Rialto”. E’ una delle tante frasi elogiative che sulla stampa francese (questa è di Vidal-Blanchard su “Progres”) hanno commentato la grande mostra che Archimede Seguso ha allestito a Lione tra gennaio e marzo e alla quale abbiamo dedicato l’ultimo numero speciale di questi “Quaderni”. Si potrebbe dire: un festa non soltanto per Archimede Seguso, ma anche per tutta una splendida tradizione del vetro veneziano, che sempre più sta imponendosi all’estero.

Ciò che più ha colpito il pubblico francese – e di cui ci par giusto dar notizia – è la qualità, come dice appunto Vidal-Blanchard, di scultore di Archimede Seguso. Lo hanno detto e scritto in molti a Lione: non si tratta più di un sia pur raffinato artigianato d’arte, bensì di autentiche creazioni artistiche, realizzate con la materia più infida che esista: il vetro. Da questo punto di vista, cioè dalla creazione artistica pura, hanno avuto risalto, nei commenti del pubblico e degli specialisti, soprattutto le opere del ciclo “Rotture”, che hanno avuto un luogo a sè all’interno della mostra.

Le “Rotture”, di cui abbiamo parlato ampiamente proprio nel primo dei nostri “Quaderni”, sono un ciclo recente ancora in fase di produzione, con cui Archimede interpreta emblematicamente i caratteri, estetici come psicologici, del nostro tempo. Rotture come scissioni, lacerazioni, strappi, cioè come segni inquieti del nostro tempo, schegge, ferite che coinvolgono il nostro esistenziale destino.   II vetro non è più una massa compatta che al suo interno nasconde preziosità di ritmi, luci e colori, quasi magie irreali: la massa si rompe, esplode irradiandosi nello spazio di una galassia di luci spezzate, producendo sfalsamenti e translitterazioni, agitando vettori di forza verso l’esterno ma anche magnetici risvolti verso l’interno… Queste sono le “Rotture” di Archimede; e anche a Lione, come altrove, s’è vista in esse la testimonianza di una condizione che è sociale e che investe la psicologia stessa del nostro tempo.

“Vaso a rete”, 1989, h. cm. 36,5, I. cm. 18,5; “Vaso riflessi”, 1989, h. cm. 28, I. cm. 17.

“Leonardo”, 1991, h. cm. 35, I. cm. 23; “Vaso sezioni tramate”, 1991, h. cm. 22, I. cm. 23.

Vaso, 1958, h. cm. 39, I. cm. 15,5, vaso con piede in vetro trasparente; sfera centrale decorata internamente da una rete ritorta di fili di lattimo. Portacandela, 1958, h. cm. 16,5, I. cm. 9, candeliere con sfera centrale in vetro trasparente, decorata internamente da una rete ritorta di fili di lattimo.

Uovo 1995 “Pointy”, h. cm. 14. Uovo in vetro soffiato cristallo e oro, con costolature verticali interne decorate da tocchi di corallo.

La mostra di Lione, che si chiude il 17 marzo, è comunque soltanto una tappa del “cammino artistico” che Archimede ha intrapreso. Essa diventerà itinerante: le prossime tappe saranno Lilla, Zurigo e Ginevra. Le “Rotture” si uniranno ad altri cicli e ad altre modalità espressive del grande maestro vetraio muranese. Ad esempio, sarà riproposta la serie delle decorazioni da tavola, che va dai grandi vasi alla Veronese fino alle estrose modernissime stoviglie. E non mancheranno gli ultimi “intrichi”: bolle di vetro soffiato blu cobalto, incamiciate di cristallo e con intarsi filamentosi in lattice e corallo. Sarà l’ennesima dimostrazione della vitalità intatta di Archimede Seguso.